LA NASCITA DELLA TRAGEDIA DI FRIEDRICH WILHELM NIETZSCHE 20021200


 
IntroduzioneN. è un caso nella storia della filosofia. Egli è un filosofo che ha una caratteristica unica nel panorama della filosofia fino a lui contemporanea: scrive i suoi libri di filosofia non utilizzando il linguaggio filosofico, ma con un metodo allusivo, metaforologico ed in forma letteraria, in parte narrativa. Non utilizza quel famoso “linguaggio filosofico” usato ad esempio da Cartesio, Kant, che scrivevano di filosofia in maniera “filosofica”. N. scrive i suoi libri come se fossero libri di letteratura a cui non mancano però, naturalmente, le allusioni alla filosofia, ma lo stile che adotta è uno stile anti-sistematico. Una delle ragioni di ciò è che secondo N. la dimensione estetica della conoscenza ha un valore altrettanto grande quanto quella teoretica. Per N. la vera forza della conoscenza, del pensiero, sta nel riuscire a tenere insieme le due pulsioni fondamentali dell’uomo, la dimensione esteriore, e la dimensione interiore. In pratica sostiene che l’uomo non è riducibile ad una sola identità, ma la nostra identità si costituisce essenzialmente attraverso una mediazione, un equilibrio, un rapporto fra interiorità ed esteriorità, fra interno ed esterno, fra essere ed apparenza. L’apparenza è la dimensione estetica, l’essere è la dimensione teoretica, etica, psicologica, relativa alla psiche, pre-anima, anima intesa nel senso di interiorità. Per N. la conoscenza è possibile solo lì dove si realizza questa perfetta relazione fra esterno ed interno, questa consonanza. Il suo libro si chiuderà proprio con dissonanza, che ne è l’esatto contrario.
La prospettiva di NietzscheIn tutte le opere di N. c’è una continuità, ed ogni sua opera contiene la totalità del suo pensiero. Per questo l’opera di N. si può leggere in vari modi. Non c’è una sola verità. Il suo pensiero ha “pensato” i limiti della ragione. Ogni lettura dell’opera di N. che si compie, non può avere pretese di assolutezza, ma può essere solo una interpretazione. La nascita della tragedia  è il suo primo esrcizio filosofico. In quest’opera cerca di indagare dove e come sia nata una delle più alte forme del classicismo: la tragedia, appunto. Essa è la rappresentazione teatrale greca che tocca il vertice con, nell’ordine, Eschilo, Sofocle ed Euripide.
Con quest’opera N. si pone l’obbiettivo di mettere in crisi la concezione classica, tradizionale  della tragedia. La concezione tradizionale è quella legata alla filologia. Ma la filologia è il contrario dell’interpretazione. Pretende di essere assoluta. Il lavoro del filologo è il lavoro del metafisico: ciò che fa è la relazione causale in modo che la ricostruzione sia rigorosa e quindi vera.
N. deve molto alla filologia, per il profondo scavo che gli permette di compiere all’interno del linguaggio. Anche perché la filologia gli permise di insegnare all’università di Basilea (pur non essendo ancora laureato), fatto che gli offrì l’occasione per mettersi in buona luce. Nella scelta di abbandonare la filologia fu decisiva la conoscenza di un grande storico proprio nella università di Basilea: si tratta di Jacob Burckhardt, un filosofo della storia. All’inizio si limitò ad ascoltare le sue lezioni, non avendo il coraggio di presentarsi, poi cominciò a scrivergli delle lettere. Di lui apprezzava il fatto che si distaccasse dall’ambito dell’Historismus, che giudicava la storia, la ricerca storica come unica, dominante materia della conoscenza della civilizzazione; la storia era pertanto considerata non solo una scienza, ma la più importante delle scienze. Burckhardt invece sosteneva, che non solo la storia non può essere considerata una scienza, ma, non può “ridursi” a scienza[1]. N. afferma infatti che la storia è vita, e la vita non può essere “ridotta” a scienza: «La vita non è un argomento».
N. costruisce un “tribunale” al pensiero moderno ed alla filosofia occidentale, ma non moderno nel senso di post-cartesiano, ma a tutta la filosofia, da Platone ai giorni a lui contemporanei. Il Tentativo di autocritica, da un lato ha la funzione di prendere le distanze dal primo N., una critica del suo stesso pensiero; ma, nello stesso tempo, dimostra di aver messo a punto le armi per fare una critica di tutto il pensiero occidentale. La nascita della tragedia,  critica la tragedia dove vi sono gli elementi fondamentali per decostruire l’impianto del pensiero della cultura occidentale. Dopo l’autocritica, compone una dedica a Richard Wagner (1871), nella quale, N. dichiara un punto essenziale, cioè che egli è convinto che l’arte è il “compito” più alto della metafisica che si può ottenere in questa vita; si rivolge poi direttamente a Wagner, individuandolo come miglior rappresentante di questa concezione; «…io sono convinto dell’arte come del compito più alto e della vera attività metafisica di questa vita, nel senso dell’uomo a cui io qui, come al sublime combattente che mi precede su questa strada, voglio che questo scritto sia dedicato». N. era intenzionato a scrivere un libro di ri-costruzione e re-interpretazione della tragedia, sulla base di una concezione dell’uomo che sta alla base del suo pensiero filosofico, profondamente diversa da quella che la lettura tradizionale della nascita della tragedia faceva pensare. L’uomo che vede N. è ambiguo, ma si sa che l’ambiguità non è propria di una cultura scientifico-razionalista. Questa ambiguità che rivela, è almeno dualità, ambiguità che N. rivendica essere stata scoperta dai greci precedenti a Socrate e Platone, dai greci del terzo dei tre periodi pre-socratici (suddivisione di N.), i tragediografi, che sono i greci che hanno assorbito la tradizione del primo periodo, quello di Omero, il periodo mitico, e del secondo periodo, quello di Archiloco, il periodo poetico,  e di cui il terzo periodo, il periodo tragico, è la sintesi, che si realizza e trova il suo vertice con la tregedia attica di Eschilo. Il tutto cioè fra XI e VII secolo a.C.: in quattrocento anni secondo N. si è costituito il terreno di una vera comprensione dell’uomo, di cui la tragedia è la rappresentazione compiuta. Per N. la filosofia greca, intesa come concezione del mondo, è quella espressa fra l’XI e il VII secolo a.C., cioè prima che nasca la filosofia socratico-platonica. La tragedia greca rappresenta pienamente la sintesi del processo di consapevolizzazione, di raggiungimento di consapevolezza dell’uomo sul proprio senso e significato di tutto ciò che accade. Dopo, con la crisi della tragedia, dopo Sofocle, è un processo di continuo decadimento dell’altissimo momento raggiunto dalla rappresentazione tragica. Da allora inizia la decedenza che porterà il pensiero occidentale all’assassinio di Dio, ucciso con l’illusione della verità, la conoscenza, la volontà di verità sviluppatasi in venticinque secoli, sono la causa dell’uccisione di Dio. Chi vuol sapere, ha prodotto nessuna conoscenza ed inoltre la morte di Dio. Ma visto che l’abbiamo ucciso, abbiamo una grande occasione, non ci sono più vincoli per pensare il pensiero, non ci sono più condizionamenti di una idea metafisica: si può cominciare daccapo.
Diversi tipi di nichilismo Cos’è il nichilismo? È la volontà del nulla, la perdita di senso: è l’epoca dell’uomo senza senso, che perde il senso. N. fu sempre identificato col nichilismo, ma lui, quando si occupa di decandenza, afferma che effetto e causa della stessa decadenza è il nichilismo. Ma distingue il nichilismo in tre distinte forme: nichilismo passivo, nichilismo reattivo e nichilismo attivo.
Il nichilismo passivo è quell’atteggiamento, quella volontà di nulla e perdita di senso di chi si ripiega sul nulla: «nulla ha senso, meglio il nulla che qualche cosa» (Schopenhauer). Ci si nasconde, si pensa che la vita non valga la pena di essere vissuta, si sprofonda nel nulla. È il concetto di noluntas[2] di Schopenhauer, ed un po’ quella che è la filosofia o le religioni orientali, esempio lampante: il buddhismo, vista come la filosofia del distacco o del non attaccamento. L’unico modo per evitare il dolore è non attaccarsi alla vita, prendere le distanze da essa. Ironia estrema: rispetto alla volontà, che è pura illusione, meglio la nolontà, il non volere. Meglio volere il niente che qualche cosa, dato che tutto è solo sofferenza. È una parte della filosofia di Schopenhauer aveva suggestionato N.: apprezzava la sua presa di coscienza che la vita fosse dolore, che l’esistenza fosse dolore. Quel dolore che non è fisico, ma il dolore di una inconciliabilità, il pathos, che è dolore, sofferenza, ma anche l’essere esposto, l’esser passivi. Quel qualcosa che ci urta e che non possiamo evitare, e che urtandoci ci espone al dolore; è quel concetto heideggeriano dell’esser gettati: non siamo venuti al mondo per nostra volontà, siamo stati voluti e forse nemmeno quello, e comunque non fino in fondo: non era noi che cercavano, un qualcuno, ma non noi: voluti come idea, ma non ciò che siamo. Anche per il fatto che non sappiamo chi saremmo potuti essere, una irripetibile individualità, in qualche modo innocenti come subenti il nostro esser nati. È la nostra passività, il caso: siamo passivi al mondo. Il pathos è la gettatezza. Questo pathos è ciò che N. ha ereditato da Schopenhauer, ma mentre quest’ultimo indica la nostra condizione di passività come fonte di dolore da cui cerchiamo di distanziarci, su questo N. non si trova d’accordo. È appunto il nichilismo passivo, che concependo la vita come dolore, cerca di evitarla, e l’unico modo per scamparsi dal dolore è quello della concezione buddhistica che tematizza il non attaccamento alle cose. La vita è perdita, sempre, ed è proprio questa perdita che si cerca di neutralizzare. Per non patire il tempo, lo mettiamo a distanza, e cosa è il tempo, se non la perdita delle cose? Il tempo è il rapporto con le cose presenti che poi perdiamo; nel momento in cui ogni cosa accade, già la perdiamo, è già passato. È perduto irrevocabilmente. Ogni nostra azione presente è esposta alla perdita, è destinata a perdersi. La concezione della perdita crea dolore e Schopenhauer cerca di esorcizzarla cercando il distanziamento dalle cose. Con l’affettivizzazione il tempo si fissa nel nostro io, nella nostra vita. Le esperienze, gli affetti sono ciò che più perdiamo, quelli che lascino il vuoto maggiore, e davanti a questa perdita ci si può difendere solo disaffettivizzando la partecipazione al mondo, abbandonarsi alla noluntas.
Il nichilismo reattivo, da cui N. prende pure le distanze è il nichilismo proprio della tradizione da Platone in poi. È la volontà di sapere. Esso è nichilismo perché in fondo la volontà di sapere è una volontà criminale perché si fonda su un solo elemento: la ragione. La ragione quindi, il logos, la logicizzazione del mondo è la pretesa di affermare la piena reversibilità del mondo in un modello matematico, di vedere il mondo come un agrande macchina. Questo atteggiamento ha la colpa di far il solo uso della ragione, ma reagisce all’angoscia che la sua incapacità conoscitiva dimostra, con l’apparato della falsificazione con delle maschere: la cultura borghese è propria di questo tipo di nichilismo, c’è autoinganno della ragione e consapevolezza dei suoi limiti, ma non ha il coraggio di dirselo e si prende in giro falsificando la realtà. Il formalismo borghese è una testimonianza di questa reazione: sotto l’apparente fiducia della reazione, ammantata di bei vestiti, si cela l’angoscia del non riuscire a conoscere. Davanti alla mancanza di senso l’uomo finge di credere che il senso stia nella ragione conoscitiva. Come si esce dall’angosciante senso? Con la distrazione, con la finzione fingendo qualche scopo o ragione, o, ed è la posizione di N., con una presa di coscienza piena e radicale dell’insensatezza? Cioè, nonostante tutto con una risposta positiva anche al dolore della vita: il dire si! Dire si alla vita, nonostanta sia dolorosa, nonostante sia priva di senso.
Il nichilismo attivo di N. non sta tanto nel fatto di una valorizzazione del concetto di vita, ma nell’affermare si alla vita, si riscontra una connotazione etica: dire si alla vita essendo consapevoli della sua insensatezza è un atto di grande coraggio, ma non il coraggio dell’eroe, ma il coraggio etico. Sono consapevole e quindi responsabile di ciò che faccio, perché da un lato, non c’è salvezza, ma solo insensatezza, ma dall’altro lato, la prospettiva della mancata salvezza mi fa assumere tutta e fino in fondo su me stesso il peso delle mie azioni. L’etica non è altro che il sapere di dover rispondere delle proprie azioni. L’idea nitzscheana del nichilismo attivo è l’idea che sottende un’alta responsabilità assunta, approdi nel bene o nel male; soprattutto assume su di se il peso delle proprie azioni: non ci sono salvezze oltre le mie azioni, non c’è nessuna giustificazione, nessuna difesa. Si è soli davanti alle proprie scelte. Il valore del nichilismo attivo nitzscheano è che oltre ad essere una risposta vitale, è soprattutto una risposta che indica non tanto una posizione morale (nel senso di una disciplina costituita esternamente), ma etica. È una responsabilizzazione. Non è un caso che l’etica contemporanea si radichi nel concetto di responsabilità. N. sancisce quello che è un avvenimento terribile e grandioso allo stesso tempo: la morte di Dio, la fine delle possibilità, della speranza di salvezza.
La comprensione dell’uomoN. si allontana progressivamente dalla filologia, avvicinandosi alla filosofia, secondo un metodo di studio che, come lui afferma, se si deve avvicinare alla poesia, da quel momento si sente poeta. La cultura secondo N. è prigioniera di se stessa, delle sue costruzioni autoconsolatorie. Dal momento in cui iniziò ad interessarsi di filosofia, si occupò anche di fisiologia, medicina e scienze naturali: la filosofia non è una materia, ma la conoscenza della realtà umana, e quindi fatta, questa conoscenza tramite le scienze naturali. L’uomo si indaga e comprende anche attraverso la malattia. Tutto è il prodotto di funzioni. N. capovolge il significato di corporeità. Il corpo diventa fondamentale. È il rovesciamento del principio cartesiano. Le idealità sono le idee, le rappresentazioni organizzate tramite il pensiero e sono fondamentali per la filosofia che poggia le sue basi sull’idea cartesiana del cogito. È la fondazione del soggetto, ciò su cui si fonda la soggettività, l’Essere, l’esserci. L’esistere deriva dal pensiero, dal pensare: se non pensassi non ci sarei; è il pensiero a costruire l’esistenza. Il pensiero è ciò che garantisce l’essere, l’esistere. L’esistere dipende totalmente dal pensiero, se c’è il pensiero, c’è l’esistere, se non c’è pensiero non si esiste. La filosofia occidentale fonda su questa idea sie l’esserci antico, sia quello ontologico-metafisico. Questo soggetto è l’Io. Il soggetto è l’Io. Tutta la filosofia occidentale, soprattutto quella dell’Europa continentale, si concentra su questa idea che vede l’Io come fondamento della soggettività, della certezza dell’esistenza. N. non è d’accordo con tutto ciò e dà uno scossone decisivo, affermando qualcosa di impensabile in quegli anni, in una cultura come quella occidentale che afferma un sostanziale disprezzo per il corpo. Nel Così parlò Zarathustra (Degli spregiatori del corpo) afferma:

«(…) l’uomo desto, l’uomo cosciente dice: Io sono tutto corpo e nulla fuori di questo; e anima è solo una parola per qualcosa che è nel corpo.
Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, uan guerra ed una pace, un gregge ed un pastore.
Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami «spirito», un piccolo strumento e zimbello della tua grande ragione.
«Io» dici e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa più grande – cui non vuoi credere – è il tuo corpo e la sua grande ragione; questa non dice io, ma fa da io. (…)
Strumento e zimbello sono senso e spirito: dietro di essi sta ancora il Se stesso. Il Se stesso è in cerca anche con gli occhi dei sensi ed è in ascolto anche con gli orecchi dello spirito.
Sempre è in ascolto il Se stesso e in cerca: confronta, costringe, conquista, distrugge. Domina ed è anche il dominatore dell’io.
Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un potente sovrano, un saggio sconosciuto – si chiama Se stesso. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo. (…)
Io non vado per la vostra strada, spregiatori del corpo. Non mi siete ponte verso il superuomo![3]»

In altre parole afferma: tu uomo della conoscenza, vai orgoglioso di te stesso e della tua conoscenza e dici: io. Ma che cos’è questo io, chi è io? È la tua conoscenza, la tua ragione che ti fa dire io? O chi dice io non è per caso qualcosa che sta molto più in basso e più vicino a te? Tu la chiami ragione, ma questa ragione che dice io è il tuo corpo. La tua ragione più profonda è il tuo corpo, che dice “se” come “io”. L’io non è altro che una funzione della ragione e del corpo, e il corpo che “funziona” si auto definisce io. È il rovesciamento dell’idea cartesiana: è il corpo che ha la ragione, non è la ragione che da il corpo. È il corpo che parla e pensa. Il parlare del corpo dice «io ragiono». N. inverte radicalmente lo schema della tradizione filosofica occidentale mettendo l’uomo di fronte ad una risposta antropologico-filosofica: per conoscere l’uomo bisogna conoscere la struttura del corpo; solo così si può entrare in quel labirinto che è l’uomo. Quindi lo schema del pensiero nitzscheano oscilla in un orizzonte ben preciso: l’ambiente naturale. Qual è il problema escatologico, ultimo di N. se non un problema proprio dell’uomo? Le ragioni di ciò stanno nel fatto che una delle due polarità, un fattore di ambiguità è l’esteriore, il corpo è ciò che al di fuori appare di noi, ma è anche interiorità. È un fuori ed un dentro, e questa totalità che è il corpo è ambigua, perché porta già con se questa ambiguità esteriore ed interiore. L’anima non è altro (tralasciando qualsiasi discorso religioso). L’anima è la nostra continua rielaborazione, interiorità, di ciò che accade esternamente, esteriorità. Conciliare queste due parti, è il problema che N. si pone.
Apollineo e dionisiaco L’accusa che fu rivolta a N. all’indomani della pubblicazione del libro, era che in realtà l’opera fosse non l’analisi, uno studio, sulla nascita della tragedia, ma che fosse solo un’apologia dell’opera di Richard Wagner. Si tentò di farla passare come una finta ricerca a soli fini pubblicitari. Ma ciò è impossibile perché il lavoro di N. si presenta sin dall’inizio come un’opera di tipo estetico e soprattutto presenta una tesi nuova che fu la ragione della mancata accettazione dell’opera a quell’epoca e cioè «che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’“apollineo” e del “dionisiaco”, similmente a come la generazione dipende dalla dualità dei sessi, attraverso una continua lotta e una riconciliazione che interviene solo periodicamente» (p.21)[4]. È la ragione per cui è possibile uno sviluppo dell’arte. L’arte cresce e si trasforma grazie a questa duplicità, l’apollineo ed il dionisiaco. È una constatazione che non interessa solo la tragedia, ma coinvolge qualunque tipo di arte. Apollineo e dionisiaco sono le polarità fondamentali entro le quali secondo N. oscilla l’ambiguità dell’uomo. Ambiguità che è costitutiva dell’uomo, ed ambiguità che oscilla entro le metafore degli dei greci Apollo e Dioniso. Divinità con una natura molto differente, e rappresentanti secondo tradizione arti e simboli diversi. La tensione nell’uomo di queste due nature è ciò che caratterizza l’umanità ed è ciò che produce l’arte. Sia Apollo che Dioniso sono divinità artistiche, pur rappresentando arti diverse fra loro: Apollo è visto come simbolo dell’arte plastica, dell’arte formalizzata nella dimensione materiale, e che si identifica con la scultura; Dioniso è invece il rappresentante di un’arte puramente astratta, eterea, di puro livello sensoriale, la musica. La formalizzazione di queste due forme d’arte è profondamente diversa: l’arte plastica è una forma d’arte visibile, mentre quella musicale è invece una forma espressiva invisibile. Apollo rappresenta ciò che appartiene al mondo del visibile; Dioniso rappresenta una forma espressiva che appartiene al regno dell’invisibile, del non tangibile. L’arte apollinea è l’arte figurativa, la scultura, l’arte dionisiaca è l’arte non figurativa, la musica. N. afferma che per questa ragione l’artista apollineo, rispetto all’artista dionisiaco, scultore e musicista, sono tanto diversi perché rispondono ad impulsi radicalmente diversi, procedenti però uno accanto all’altro. La tesi di N. è che la tragedia greca attica eschilea, è quella grande opera d’arte che è, perché rappresenta la sintesi di questi due impulsi, di queste due forme d’arte contrastanti. È cioè un meraviglioso atto metafisico. È un’ammirazione, una scoperta che solo quel mondo greco attico ha avuto la capacità ed il coraggio di mettere insieme rappresentandole, queste due dimensioni della natura umana: l’apollineo ed il dionisiaco.
Apollo, come ci dice almeno una radice etimologica, leucos, cioè bianco, luce, è il dio della luce, è il «risplendente» (p.23), e quindi la divinità di tutto ciò che è visibile, e la luce è la condizione essenziale affinchè sia possibile la visione. Leucos è quella luce che consente di vedere le forme, gli oggetti, di vedere la verità; l’arte plastica è tutta esteriorizzazione. È la scultura, che si distingue dalla pittura, che non è invece un’arte plastica dato che è solo una “facciata”; l’arte plastica, la scultura si vede assolutamente, nel senso che si coglie come assoluta; è realizzata con una “materia”, e la materia utilizzata è bianca (leucos) per antonomasia: il marmo. Apollo dunque dio della visione, e di conseguenza anche il dio del sogno, perché il sogno è appunto visione. Il sogno veniva nel mondo classico interpretato come una premonizione, una pre-visione, permetteva di vedere prima ciò che sarebbe accaduto: la dimensione del sogno è dunque caratterizzata dalla sua visionarietà.
Dioniso è legato tradizionalmente alla musica, ma a differenza di Apollo ha una tradizione molto più antica di derivazione asiatica. È in genere il dio di tutto ciò che non si vede. Come Apollo è dio del sogno, così Dioniso lo è dell’ebrezza. L’ebrezza da atto a diversi tipi di visione, fa vedere distorto, oppure due volte (diplopia), o molte volte; permette di cogliere più visioni dell’oggetto da vedere, in contrasto con la piena, ma univoca visione della vera visione. L’arte plastica mostra una sola verità, l’arte musicale, rappresentata dall’ebrezza allude alla plurivisione che mette in discussione, in crisi la verità. Apollo è la figura che indica ciò che si può vedere e quindi rappresentare, cioè vedere di nuovo, il vedere anche senza la presenza dell’oggetto (Kant); Apollo si porta il peso di questa responsabilità, di essere la divinità di ciò che si vede e che quindi è “vero”, che è esteriore, che si manifesta, è estetica (scienza della manifestazione): rappresenta la parte manifesta dell’uomo. Dioniso, invece essendo la divinità della musica e di ciò che non si vede ma si sente, rappresenta la parte celata dell’uomo.
Sentire e vedere sono i due verbi fondamentali. Il sentire è usato anche in senso traslato per la dimensione dell’affettività, che indica un qualcosa di non rappresentabile. Non è un caso che il dio della musica rappresenti tutto ciò che non è rappresentabile: la musica ed il sentimento. La musica è ciò che non si vede e non si manifesta, non è rappresentabile. Allo stesso modo non rappresentabile è ciò che si sente, inteso come sentimento, che è la dimensione invisibile, interiore. L’ebrezza tende ad esaltare quella dimensione, poco conosciuta, ma che c’è, cioè la dimensione non logica, la dimensione pato-logica, o patica, cioè affettiva. Dioniso tutela il nostro abbandonarci ad una dimensione che per principio non è la dimensione propria della ragione, della consapevolezza: la dimensione dell’oblio, dell’annullamento. Dioniso è un obliteratore, un annullatore. Annulla la coscienza, la consapevolezza, la tangibilità delle cose, di ciò che si vede. Ma perché noi riusciamo a vedere le cose? Perché le ricordiamo. Senza il ricordo non c’è visione, perché se non avessimo il ricordo della visione, lo perderemmo nel momento in cui lo vediamo. Poi, non potremmo più riconoscerla.
«Inchiodato al piolo dell’istante», dice N. riferendosi all’animale. La gioia è la semplice presenza. L’animale appare felice, ma non lo è, perché dimentica continuamente ciò che ha fatto e risponde solo al ripetitivo modello naturale: mangiare, riprodursi, morire. L’uomo possiede il linguaggio, che è la trasmissione della storia, delle esperienze. Ma l’uomo, a furia di ricordare e rappresentare, perde una parte di se, perde una parte fondamentale per la creazione, che permette letteralmente di creare il nuovo, cioè la capacità di obliare. Perde uno dei due poli fondamentali, la dimensione dell’ebrezza, dell’abbandone, della sospensione della memoria. La ragione per cui la tragedia attica è la forma più alta di arte, è perché questa mantiene ambedue le dimensioni: la visione e la dimenticanza.
N. definisce la visione ed il sentire, due fenomeni fisiologici, due impulsi, cioè che non si tratta di dimensioni dell’arte o dello spirito, ma, impulsi, e gli impulsi li ha il corpo, il corpo vivente. Ecco perché per N. è così importante il corpo. L’io è una funzione del corpo, derivato dagli impulsi fondamentali, il vedere ed il sentire. Tutto nasce e ritorna lì.
Il principium individuationisN. fa subito (p. 24,25,26) riferimento a due ben precisi filosofi: Kant[5] e Schopenhauer[6], il primo implicitamente, il secondo esplicitamente, parlando del principium individuationis, o principio di individuazione o principio di ragione.

«E così potrebbe valere per Apollo, in un senso eccentrico, ciò che Schopenhauer dice dell’uomo irretito nel velo di Maia (Mondo come volontà e rappresentazione (…)): “Come sul mare in furia che, sconfinato da ogni parte, solleva e sprofonda montagne d’onde, un navigante siede su un battello, confidando nella debole imbarcazione; così l’individuo sta placidamente in mezzo ad un mondo di affanni, appoggiandosi e confidando nel principium individuationis”».

Il principium individuationis è il principio che denomina le cose. Denominandole, le individualizza, le rende individui. La “Critica della ragion pura” di Kant, indaga le strutture conoscitive della ragione, che si applica a ciò che appare e si manifesta: i fenomeni[7]. Kant è famoso anche per il noumeno[8] (da nous = mente), un fenomeno dell’intelletto, qualcosa che non si manifesta ma che pure è pensabile. Il noumeno è il non-fenomeno e quindi in quanto solo pensabile e non rappresentabile, è inconoscibile. Si può pensare ma non conoscere perché non si può individuare. Non si può individuare secondo due categorie fondamentali, secondo le quali qualcosa si manifesta, le condizioni a priori sono, lo spazio ed il tempo[9]. Il principium individuationis afferma che ciò che non si manifesta nello spazio e nel tempo non è conoscibile. Risolve molti problemi rovesciando le modalità con le quali noi “conosciamo”. Non è importante che una cosa sia reale o no, l’importante è capire le modalità con le quali la ragione conosce le cose. Kant cerca non di individuare se la conoscenza sia vera o falsa, ma il modo, le strutture secondo le quali l’uomo conosce. Nel fare questo chiede, in quale condizioni avviene la conoscenza? Secondo due coordinate, spazio e tempo. Anche gli affetti si collocano sempre nello spazio e nel tempo. Sono le condizioni uniche e necessarie della possibilità della conoscenza. Il noumeno è solo pensabile, non è né nello spazio né nel tempo.
N. cita Schopenhauer con la finalità di avvalorare  la sua tesi, dato che era anche il filosofo cui si ispirava per una certa concezione del mondo. È un passo, quello citato da N. di Schopenhauer in cui si nota una critica a Kant, mettendo in evidenza la posizione teoretico-conoscitiva di quest’ultimo, paragonandola alla posizione di un povero disgraziato che in mezzo al mare in tempesta fa affidamento sul guscio sul quale si trova. Indica cioè attraverso la sua teoria Kant ha creduto di consolidare l’io conoscitivo e di rassicurare l’uomo con l’esplicitazione delle condizioni attraverso le quali conosce. La conoscenza per Kant è certa, mentre Schopenhauer afferma che l’uomo, questo disgraziato che crede di conoscere, è solo un navigante che sta naufragando, ma se ne sta placido sul suo principium individuationis, cioè sulla sua fragile barchetta. Irretito nel velo di Maia, il velo dell’apparenza, tolto il quale si scopre l’illusorietà della vita.
L’utile riferimento a Schopenhauer e Kant fanno capire alcune cose di N.: cioè che attraverso la ricostruzione della nascita della tragedia, mette in evidenza che l’esito funesto, del prevalere di una delle due dimensioni, quella apollinea, si è prodotto nella civiltà occidentale, perché Kant, e prima di lui tutti i filosofi da Platone ed Aristotele in poi, quindi tutto il pensiero occidentale, privilegiano e si concentrano sulla rappresentazione: tutta la filosofia conoscitiva si è concentrata sulla dimensione apollinea; sulla rappresentabilità, sulla vana speranza di un mondo totalmente rappresentabile. Schopenhauer ha quindi ragione perché mette, attraverso la sua concezione negativa della conoscenza, in discussione il principium individuationis di Kant, commettendo tuttavia anch’egli un errore, gettandosi tout-court dalla parte del naufrago, anzi, del naufragio. Schopenhauer afferma che è inutile conoscere perché comunque si ritorna al nulla; finchè tocca vivere, bisogna porsi il più distante possibile da tutto. In un certo senso Schopenhauer ha ragione, perché con ciò si recupera la seconda polarità, la dionisiaca e quindi irrazionale[10]. Mi abbandono al naufragio, tanto non posso farci niente. Ma N. critica anche Schopenhauer: non è l’irrazionalità che risolve tutto, il problema dell’uomo è la connivenza del razionale con l’oblio. Ecco perché l’opera d’arte della targedia greca attica secondo N. rappresenta  nella sua forma di narrazione estetica, l’ineludibile verità (vanità) della condizione umana, fra conoscenza ed oblio, non privilegiando né la logica, né l’affetto. È la decacenza dell’uomo occidentale, l’ipertrofia della dimensione logica a dimenticare. Lo sforzo dell’antropologia nitzscheana è di tenere unito sogno ed ebrezza, visione ed ascolto, interiorità ed esteriorità. Le due pulsioni fondamentali dell’uomo, le due spinte che vengono dal “basso”, dal corpo, fenomeni fisiologici. Nella ricostruzione di N. queste due forme di espressione sono unite solo nella tragedia greca attica, più precisamente di Eschilo.
Ma chi sono i protagonisti della tragedia greca oltre ad Apollo e Dioniso? Oltre a Kant e Schopenhauer (in senso indiretto)? Altri protagonisti fondamentali sono da un lato l’artista e dall’altro la natura. Vi è un rapporto fondamentale fra arte e natura. N. scrive (p.27) che ogni artista è un imitatore, o artista apollineo, del sogno, o artista dionisiaco, dell’ebrezza, o entrambi. N. descrive qual è la funzione dell’artista e in quale modo vive la sua esistenza di artista, di imitatore. L’artista non crea nulla di nuovo, ma imita la natura davanti alla quale si trova. Egli può essere imitatore dell’esteriorità o dell’interiorità, oppure di entrambi, come nel caso della tragedia greca. Egli rielabora, comunque, in maniera personale impulsi primari, realizza immagini di tipo simbolico. L’artista partendo dagli strumenti della natura, realizza un simbolo. L’arte è innanzi tutto attività simbolica. Già la parola stessa, di origine greca lo dice: “symballo”, cioè “metto insieme”, con-struire, tenere insieme almeno due cose. Il simbolo è sintesi di almeno due “materie”. L’arte è un’attività simbolica nel senso che tiene insieme più cose; allude a più cose. Gli impulsi artistici sono impulsi che hanno la loro radice nella natura, primigenia dell’istinto artistico e nello stesso tempo ispiratrice. L’uomo tende ad imitare gli impulsi che la natura è in grado di ripresentare alla natura dell’uomo.
Tutta la prima parte del libro (fino a p.30) si sofferma sul rapporto tra apollineo e dionisiaco concentrandosi poi sulla comparazione fra Kant e Schopenhauer, parlando del principium individuationis, proclamando il fallimento di entrambi, oltre che del rapporto tra artista e natura, che si ricollega al primo argomento, trattando il dualismo apollineo – dionisiaco in rapporto all’artista, ed a sua volta in rapporto alla natura.
Il problema del linguaggioTutta La nascita della tragedia è attraversata dal tema del linguaggio come stile, inteso come ricerca dell’origine del linguaggio stesso. Il metodo che N. adotta è quello genealogico (che sarà quello adottato anche per la Genealogia della morale). N. pone le condizioni della genealogia del linguaggio domandandosi, cos’è il linguaggio, la parola? Risposta: uno stimolo nervoso, quindi fisiologico. La parola detta è una metafora: è qualcosa che indica ciò che vuol indicare, ma allude ad altro. È un portare oltre. Allora la metafora è già la modalità con cui il linguaggiosi origina, perché lo stimolo nervoso da cui nasce è una cosa, il suono che si emette per esprimerlo è altro ancora, e l’immagine che comunica è ancora altro. Il linguaggio è una metafora, è qualcosa d’altro rispetto a quello che dice, è un’allusione, altro da ciò che è, da ciò che appare, e comunque comprende altro rispetto a quello che dice. Ogni volta che avviene una metafora, si crea un qualcosa che rimanda solamente a tutto il resto: è una cascata di metafore, ma ogni passaggio da un piano all’altro non sembra connesso con i precedenti. Se pensiamo alla biochimica, che è composta con sostanze chimiche, gli ormoni, ed il passaggio fondamentale del cervello, la sinapsi, che è elettricità. Non sembrano avere nulla a che fare con l’immagine; perché questo movimento biochimico dovrebbe produrre un’immagine? L’arte apollinea non ha nessun legame con quella dionisiaca, la scultura con la musica. Se è vero che il linguaggio è metafora, ed il passaggio da una metafora all’altra non ha soluzione di continuità, come possiamo pensare che la verità sia, non solo una, ma il prodotto di una attività logica? La verità dice N. muove un esercito di metafore. Le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la facoltà illusoria. Una metafora consumata. N. mette in discussione l’idea stessa di verità: la verità è un’illusione, perché è una costruzione metafisica, rappresentazione. L’idea di verità non è altro che una delle tante metafore di cui è fatto il linguaggio. Il linguaggio è dunque essenzialmente non il mezzo con il quale si raggiunge la verità, ma un rapporto estetico, una serie di trasposizioni allusive. Il linguaggio è un atto creativo. Il linguaggio è essenzialmente un’opera d’arte, una creazione. Né lo strumento, né il mezzo, né il luogo della verità. Siccome l’opera d’arte è la risposta ad un istinto, ad un impulso, il linguaggio non è altro che la risposta ad un impulso. La più alta della funzioni umane, il linguaggio, il logos, non proviene dall’alto, ma dal basso. Non è altro che la risposta metaforica ad una pulsione fisica, la risposta metafisica ad un istinto naturale. È questa secondo N. la risposta a quell’istinto, a quella forza, a quella spinta che è l’inconscio, o il non-cosciente. Ciò che non è al livello di coscienza. Ma siccome non-cosciente, non vuol dire che non sia. Il discorso di N. parte dal basso, tutto quanto fa l’uomo non è altro che il prodotto di istinti: la vita che dal basso spingendo verso l’alto produce con metafore l’universo simbolico dell’uomo. Tanto l’arte quanto il linguaggio, al di là della volontà di farli apparire qualcosa di diverso, sono originati dalla stessa funzione, dimensione in cui confliggono forze profonde e non-conscie, non consapevoli. Lotta. N. mette in evidenza il fatto che tutto è il frutto di “lotta”, e questa è all’origine del loro divenire. L’atto creativo del linguaggio è frutto di una lotta non cosciente. Per questo N. valorizza così tanto il dualismo Apollo-Dioniso, perché rappresentante di questa conflittualità originaria insita nelle pulsioni profonde dell’uomo. Simbolo della lotta. Per questo Apollo e Dioniso sono il simbolo dell’ambiguità dell’uomo. Per questo il linguaggio ha secondo N. una tale forza persuasiva. Il linguaggio è persuasivo non tanto per la sua razionalità, per la sua logicità, ma ha forza persuasiva per la sua profondità, attinge, nella sua costuzione ad una pulsione che sta “in fondo”, e non in cima all’uomo. Ed è per questo che il linguaggio deve essere armonico, deve risultare risuonante per il lettore. Obiettivo di N. è la costituzione di un linguaggio che “risuoni”. Il linguaggio come opera d’arte. La musica per questo ha la capacità di eternalizzarsi. La creatività ha un valore di eternità. L’opera di N. cerca di rappresentare la riflessione sull’uomo, attraverso l’arte, attraverso l’estetica. Non serve a nulla la conoscenza puramente razionale se non si apre la dimensione profonda. L’eternità della tragedia attica, sintetizzabile nella figura di Edipo, “oltre” la dimensione tragica, tiene insieme questa ambigua faccia della natura umana. La tragedia greca finirà con la ragione socratica, che è puramente rappresentazione. Socrate si immola (nel vero senso della parola) per la ragione a danno del corpo. Col pensiero razionale socratico-platonico, ciò che innanzi tutto viene svalorizzata è proprio la dimensione corporea, esperienza per N. fondativa di ogni conoscenza.
Significato della ragioneSe intendiamo per ragione quella teoretica, rappresentativa, logica, allora secondo N. la ragione non è una dimensione dell’interiorità. Il fatto che la ragione rappresentativa non appartenga all’interiorità è il motivo scatenante della critica alla ragione moderna. Ma non crede nemmeno che la ragione debba essere intesa come esteriorità, come attività di rappresentazione logico-matematica. Nel concetto di uomo che N. ha, e all’interno dellla sua concettualizzazione della ragione, quest’ultima potrebbe anche essere una parte che è dell’interiorità. N. pensa a quella che potrebbe essere definità una “critica della ragione patica”, cioè una ripresa del sistema kantiano, di rappresentare l’idea di cosa la ragione dovrebbe essere. La Critica della ragione pura di Kant è lo sforzo compiuto dal filosofo per l’elaborazione di una teoria della conoscenza e di individuare con essa le strutture fondamentali attraverso le quali la ragione, (il pensiero razionale) presa di per se “pura”, depurato da ogni altro elemento pratico. È lo studio della ragione presa nella sua assolutezza. Kant dichiara che è lo studio della ragione dal punto di vista della sua assolutezza che serve a comprendere le condizioni entro le quali si ha una funzione. Kant lavora ad una idea di ragione slegata da tutto. Solo così si può comprendere come avviene la conoscenza. La Critica della ragione pura si pone come obiettivo di capire come la ragione opera, il metodo che le permette di conoscere. La morale agisce secondo la massima che afferma che ogni uomo è da considerare un fine e non solo un mezzo. (L’imperativo categorico). La critica della ragione pura-pratica, studia come influisce sui comportamenti dell’uomo la ragione, quindi la morale. Kant dice che la morale, preso lo schema della ragione, giunge alla conclusione che l’unico contenuto che noi possiamo indicare come contenuto proprio della ragione morale (ragion pratica), è un contenuto formale. Se noi analizziamo il comportamento morale, la ragione che ci guida nella conoscenza e nella morale, suggerisce solo un contenuto formale: non cosa devo fare, che già lo riempirebbe di una dimensione specifica, e ci sarebbe quindi già un giudizio sul bene o sull’onestà, e se facessimo questo, perderebbe il suo grado di purezza, nel senso di una compromissione con la vita vissuta. Allora Kant afferma che l’unica cosa che si può dire è che essa deve rispondere ad una sola indicazione, imperativa, categorica (imperativo categorico)[11]. Ciò perché questa indicazione non deve avere alcun contenuto, ma essere pura forma, avvertita dalla ragione (imperativa) ma non condizionata da alcun giudizio (catergorico)[12]. L’imperativo categorico non sottostà a nessuna condizione: è assolutamente libero e privo di contenuto. Perché dovrei agire moralmente? Perché me lo dice la coscienza. È la filosofia dell’uomo per l’uomo. L’imperativo categorico è IO DEVO! Senza alcun altro contenuto. Agisco moralmente perché devo. Non è prodotto da alcuna condizione esterna ma proviene solo dall’uomo stesso. Il pensiero di N. si sviluppa una sessantina di anni dopo la morte di Kant. Per N. la ragione non può essere la ragione di Kant, che è ancora una dimensione-funzione dell’attività rappresentativa che lui critica come causa del nichilismo, della decadenza, della morte divina. La ragione teoretica è questo Apollo che in qualche modo si cura della rappresentazione dimenticando la sua vita, la sua interiorità, presumendo che questa sia la vita, la verità. La verità non è altro che il prodotto della ragione teoretica. Il termine “patico” sta per una dimensione che per principio la cultura ha messo da parte, la dimensione affettiva, l’interiorità cui noi tutti ritorniamo. L’uomo apollineo, che ha finito con l’urtare contro la perdita di senso, quando ha scoperto che la presunzione della verità non era infallibile. N. tenta di trovare la vera soggettività umana. La tragedia greca, nel piano conflittuale ha ragione e passione. I greci avevano compreso questa indicibile polarità. Quando la polarità è stata ridotta all’idea della vita, ad un solo polo, vi individua N. la crisi del pensiero e l’inizio della decadenza moderna e quindi il nichilismo e la morte di dio. Se ci chiediemo se la ragione di N. prevede una interiorità, dobbiamo dire: la ragione di N. prevede un’interiorità, ma non è però questa la ragione su cui N. lavora criticamente, che è la ragione teoretica. In questo senso la ragione che N. critica non appartiene all’interiorità.
Si è visto quanto il linguaggio, fatto di metafore, sia importante. Lo dice dal punto di vista del genealogista, non filosofico né filologico. Vuole andare alla radice, perché il linguaggio è uno stimolo nervoso, un in-agire, poi una parola, cui abitualmente diamo un significato. La parola è una metafora, ma non dice ciò che rappresenta, vi allude. Se il linguaggio è una metaforologia, anche la conoscenza è una metafora. Come apprendiamo? Conosciamo le cose perché le spieghiamo, il pensiero scientifico fonda la sua veridicità sulla base dell’esplicabilità. Ma anche la verità del linguaggio scientifico è una metafora. Quello che accade io lo spiego con un codice che di per se stesso non spiega niente se è isolato. Nel momento in cui comunico la verità, questa non è più tale. Il problema di N. è stabilire dei dati fondamentali che stanno dietro il pensiero filosofico occidentale. avendo questo abbandonato l’affettività, già ha fatto un errore. La conoscenza razionale si esprime con una metafora, ma si può conoscere una verità con una metefora? Vi può accennare, ma non può esserlo. La musica non è una metafora secondo N. non che per questo sia una verità, ma in linea di principio, nella sua intrinsecità non allude a nulla. Un suono è un suono, non allude a nulla. È questa la ragione per la quale l’arte, soprattutto con la musica, è l’orizzonte attraverso il quale bisogna indagare la scienza. La scienza estetica è la scienza della conoscenza, e come conoscenza intende che la scienza è una fatto si esteriore, ma è estetica perché dipende dall’arte, cioè dalla musica. La scienza dipende dall’arte più di quanto il pensiero filosofico abbia creduto. Non è nella ragione rappresentativa il contenuto, ma nell’orizzonte dell’arte, orizzonte non praticato, ma anzi tenuta lontano dalla conoscenza. N. dice che la storia dell’uomo è un minuto: il minuto più presuntuoso e bugiardo della storia. Un minuto nel quale ha inventato la conoscenza.
C’è una presunzione positivista che afferma la totale razionalità della ragione, ma anche per quanto riguarda l’uomo, addirittura di una “razza”. Ma N. al contrario non è assolutamente d’accordo con ciò, e non è stato in alcun modo un razzista n’è tanto meno un nazista ante litteram. Intorno all’opera di N. sono state compiute una serie di manipolazioni che ne hanno stravolto il significato. Manipolazioni avvenute anche perché aiutate dal linguaggio molto forte di cui fa uso, ma N. fa il filosofo, confrontandosi col pensiero nella sua radicalità. Usa lo stesso pensiero in maniera radicale, non spiegando nemmeno però lui stesso dove quella radicalità porta. Per N. non c’è niente da costruire nel senso che mette a nudo il limite invalicabile della condizione umana. Il nichilismo attivo, che afferma di come la vita sia priva di senso, ma a questa comunque bisogna dire si, il che costituisce l’accettazione, ma non la rassegnazione. Io so che nulla ha senso, ma non per questo non vivo e non agisco. Accetto quello che la vita mi può dare. Tutto questo rappresenta una sorta di immoralismo, di antinormalismo, di antirazionalismo. La tragedia greca “rappresenta” la vita. “Rappresenta” la tragicità dell’esistenza, la tragicità irriducibile della vita. Non c’è giustificazione, non c’è salvezza non c’è perdono, non essendoci peccati. C’è solamente l’assunzione di responsabilità, l’accettazione della vita. Non bisogna rassegnarsi, ma nemmeno fingere, come fanno i borghesi. Vi è una sorta di eroismo, in tutto questo, con la quale si affronta la vita. L’eroe è una figura che sta fra il mito e la tragedia. Ma non è eroismo come elemento simbolico, ma eroismo di tutte quelle persone che decidono di affrontare la vita. È il massimo sforzo che compie N. quando mette in discussione il pensiero occidentale tutto.
N. mette in discussione il rapporto fra uomo e natura e fra natura ed eternità. L’intelletto umano eccelle nella natura, nello spazio-tempo dell’uomo ci fu un periodo in cui questo tempo non esisteva, e quando finirà non ne rimarrà più nulla. È un’illusione quella che afferma di poter conscere sul piano dell’universalità. N. tenta di istituire un concetto di coglibilità del senso della verità su un piano totalmente diverso: afferma che se potessimo intenderci come zanzare, ci sentiremmo lo stesso al centro del mondo. Qualunque forma di conoscenza, oltre ad essere una metafora, è nient’altro che il risultato di una illusione prodotta dalla percezione profonda che l’uomo ha dell’insensatezza della sua esistenza. Nella tragedia greca si colse, fu percepita questa insensatezza e fu rappresentata con l’opera d’arte tragica. Col pensiero logico questa percezione non viene dimenticata, ma negata per ragioni di necessità.
L’insensatezzaL’impianto teorico conoscitivo non è nella mancata percezione dell’insensatezza dell’esistenza e l’incapacità di sostenerla, e la costruzione di un mondo razionale che afferma di essere “conoscenza” ma scopre alla fine che è illusione. Il nichilismo reattivo è tale perché come nichilismo è ciò che intende il termine, consapevolezza dell’assenza di senso, ma lo ammanta di illusioni. Ma il nichilismo occidentale non è altro che la risposta necessitata dalla insensatezza dell’esistenza, ma N. dice anche che comunque la mettiamo e reagiamo, agiamo o non agiamo, l’esistenza è, e rimane, senza senso, è pura insensatezza. La “rivelazione” è avvenuta nella tragedia attica, dove si è rilevata la compresenza della vita interiore ed esteriore, ma anche perché è avvenuta la più terribile delle scoperte umane, là dove si è costruita la civiltà occidentale: il soggetto. La nascita della tragedia segna il momento più alto della conoscenza dell’uomo. Se è lì che nasce (e muore) il soggetto, la consapevolezza, quello che c’è dopo non è altro che il decadimento di questa orribile scoperta. Non potendo più essere sostenuta dall’uomo, non potendo più vivere con questa consapevolezza, ha preferito rifugiarsi nella dimenticanza, nel coprire la consapevolezza. Quella di N. è una critica alla possibilità di pensabilità dell’uomo che ha come compito il superamento dell’uomo stesso. L’uomo è quell’ente che ha pensato fino in fondo la propria insensatezza ventisette secoli fa, e poi ha continuato a costruire conoscenza per i secoli successivi, e N. dichiara che questa conoscenza è l’incapacità di convivere con questa presa di coscienza, nient’altro che tempo perso, sprecato a discapito del “superamento dell’uomo”. Quando crolla e si dissolve una civiltà se non nel suo momento più alto? La decadenza è l’effetto del raggiungimento del vertice. Secondo N. quando i greci riuscirono a cogliere questa verità e la rappresentarono con la tragedia attica, invece di aprirsi ad un altro mutamento, ad una trasformazione radicale, l’uomo si inventò la conoscenza della razionalità come schema e rifugio. Il pensiero filosofico occidentale è una stratificazione difensiva costruita dall’uomo per mascherare l’orribile verità. Ma allora, se tutto il pensiero occidentale è una costruzione mascheratrice di questa verità, ciò vuol dire che ogni scienza non ha alcun valore? Ma non nel senso che non possano essere utili, ma non dicono niente sull’uomo, non rispondono alla domanda fondamentale: qual è il senso? Il tentativo di N. e del suo metodo genealogico, è quello di entrare in questo buco nero, ed arrivare al punto di massima comprensione che rappresenta il punto in cui si può cominciare a riflettere su cosa e chi l’uomo sia. Questo è il nucleo centrale di quel superamento che N. dichiarerà più avanti essere l’oltreuomo. Egli ha compiuto a ritroso la prima individuazione del punto in cui la cultura greca ha rappresentato la tragicità dell’uomo. ma come si è arrivati a questo punto? Come si arriva alla tragedia? Vi è un processo, che se ancora non rappresenta la piena consapevolezza della tragedia, rappresenta uno stadio fondamentale al suo raggiungimento.
Il canto popolare Il canto popolare è la massima espressione della consapevolezza dell’uomo. N. aveva individuato le epoche del mondo tragico, trovando in Omero e Archiloco due esempi di genio greco: Omero[13] come padre della poesia epica, ed Archiloco[14] della poesia lirica. Questi due autori si contendono il ruolo di iniziatori del processo di consapevolizzazione dell’uomo, ma fra i due, N. assegna la palma ad Archiloco, perché nella sua poesia lirica, introduce l’elemento fondamentale della tragedia greca attica: il canto popolare. Mentre la narrazione omerica è puramente linguistico-letteraria, la narrazione archilochea si accompagna, l’introduzione nella sua lirica l’introduzione del canto popolare, che proviene dal “basso”. Proprio questa introduzione rappresenta l’elemento di sconvolgente novità: è il primo caso di rappresentazione dell’elemento dionisiaco. È musica e testo, e quindi rappresenta il dionisiaco. Il canto popolare inserisce nell’espressione linguistica l’elemento melodico, la melodia, che dice N. (p.46), «è (…) l’elemento primario ed universale». È qui che avviene il passaggio dal mondo epico di Omero, al mondo lirico di Archiloco con la melodia. Solo quando nel linguaggio viene introdotta la musica, si abbandona progressivamente la narrazione epica. Il canto prende la melodia dalla tradizione popolare, cioè dalla dimensione “bassa”, quel “basso” che è più vicino alla terra, al profondo, a ciò che sta dentro, sotto: all’interiorità. L’introduzione della melodia rappresenta il passaggio fondamentale dall’epica alla lirica, al raggiungimento della consapevolezza.
Il coro nella tragedia greca atticaNella tragedia greca, vediamo che il ruolo principale è affidato al coro. Il coro, a differenza di quanto si farà in seguito, è l’unico, vero protagonista della targedia. Perché la sola, vera tragedia, è quella attica, il cui protagonista era il coro? Dipende da una cosa molto semplice: dal fatto che la tragedia greca attica non può avere né spettatori, né attori. Può essere, come rappresentazione, solo coro, ed il coro è tutto: spettatore, attore, uomo. Il coro è la contemporanea interpretazione di molti ruoli. È il soggetto ed oggetto della rapprsentazione. Qual è il problema principale dell’uomo? L’affermazione del soggetto. La dichiarazione della soggettività è la più grande presa di coscienza di potenza e consapevolezza. Il problema dell’uomo è che egli non può essere contemporaneamente soggetto ed oggetto, osservatori ed osservati, attore e spettatore. Ma la rappresentazione è già un tardimento dell’oggetto stesso, perché l’oggetto non è mai solo oggetto, ma è anche soggetto. Una “cosa”, per farla diventare oggetto della rappresentazione, la si carica di un’intensione di significato, che non è l’oggetto, ma l’intensione della mia rappresentazione.
CONOSCI TE STESSO! (Socrate) È l’imperativo della filosofia greca antica. Ma la conoscenza di se stessi avviene solo attraverso la rappresentazione di se stessi. La tragedia greca invece, attaverso il coro, riesce a rappresentare la duplicità: sia l’osservatore che l’osservato, sia l’attore che lo spettatore. Non esiste un attore ed uno spettatore: il coro è tutto questo. L’arte non si limita a rappresentare qualche “oggetto”, ma riesce a mettere in scena questa ambiguità, interno-esterno, soggetto-oggetto. La targedia nel coro è in grado di rapptresentare questa profonda consapevolezza con la consonanza fra interiore ed esteriore. Ecco perché N. dice che la conoscenza nasce, proviene dalla scienza estetica, perché se è vero che la tragedia attica rappresenta contemporaneamente la rappresentazione ed il vissuto, l’apollineo ed il dionisiaco, allora, il sapere non è altro che il frutto di questa consapevolezza. Una ragione puramente razionale, logica, apollinea, non regge: la tragedia deriva in qualche modo dall’arte, perché è l’arte che è riuscita a dare questa consapevolezza. Quindi una ragione “accettabile” deve tener conto di questi fattori. N. sostiene che solo tornando all’origine delle cose si può comprendere tutto. Il coro della tragedia è il luogo in cui si viene costituendo la soggettività dell’uomo moderno, intendendo per moderno, da Socrate in poi.
Si possono fissare tre punti intorno all’opera di N. in questione: 1) lo spirito del coro tragico non è più avvertibile ai contemporanei, se non nella musica di Richard Wagner; 2) la tragedia greca, come ogni altra ricerca sull’uomo, necessita del metodo genealogico per essere risolta; 3) nel coro della tragedia attica nasce il concetto del soggetto e della soggettività della modernità. Questi tre concetti sono il filo conduttore di tutta questa opera. La “nascita della tragedia” è l’approdo dopo una lunga ascesa, dopo di cui non può che iniziare la decadenza.
È un circolo vizioso: quando non si è più in grado di fare il “nuovo”, si ritorna al passato.
Le “scissione” nella tragediaIn ogni tragedia greca, dietro tutti i personaggi c’è Dioniso. Questi è capace di “interpretare” l’uomo. Un dio, un solo dio secondo N. poteva ricoprire tutti i ruoli tragici che venivano rappresentati nella tragedia, e questi era proprio Dioniso, una divinità che riusciva ad incarnare, a rappresentare la poliedricità, l’articolazione delle identità del’uomo. era il dio che non era riconducibile ad una univoca identità. La sua pluralità di identità, che era lacerazione, tuttavia gli permette di sottrarsi al principius individuationis (p.72). Dioniso, che secondo la leggenda fu fatto a pezzi[15], rappresenta questa lacerazione, ed è l’unico in grado di rappresentarla. La tragedia, in quanto opera d’arte, è l’unica rappresentazione in grado di superare attraverso le figure tragiche la riduzione all’individuazione. Le maschere tragiche di Dioniso, sono però il simbolo della non evitabilità, tuttavia, del principium individuationis, una polarizzazione della nostra esistenza che nasce dalla differenza delle identità. Questa interpretazione è la condizione che N. ritiene essere sufficiente per individuare nell’opera d’arte tragica, e nel tragico in generale, il luogo nel quale la consapevolezza dell’uomo si scinde, o meglio, il luogo in cui acquista la consapevolezza della scissione, di separazione da se. Il soggetto moderno nasce con questa consapevolezza. La tragedia è proprio la “tragedia” della scissione. L’elemento tragico è la consapevolezza della scissione, che è la ragione per la quale tale consapevolezza viene poi mascherata dalla tradizione del pensiero moderno, in difficoltà a vivere questa scissione. L’uomo teoretico fugge, nascondendosi dietro una mascherata identità cerca di celare la scissione, e che viene a coincidere con la visione, con la ragione. In questo senso la tragedia greca è, e forse, proprio per questo, il punto dove si manifesta la soggettività, è il riconoscimento e l’inizio del nascondimento. Ma, come già è stato ripetuto, con il momento più alto, inizia fatalmente la decadenza.
Il culmine: la tragedia di EschiloIl coro viene interpretato come la messa in scena di tutti i protagonisti della realtà. Il coro nella tragedia di Eschilo, è l’unico protagonista, attivo o passivo, dell’esistenza. Rappresenta, incarna, l’elemento “unificato” della dimensione umana, del conflitto dell’uomo, quella condizione che secondo N. è dell’irresolubile polarità delle forze che governano l’uomo: apollineo e dionisiaco. Questa rappresentazione-incarnazione, consente alla targedia greca attica di fondarsi sul coro che permette la nascita della soggettività. Il soggetto è appunto l’incarnazione di questo conflitto, di questa polarità, di questa ambiguità esterno-interno. Il soggetto, proprio nel momento in cui nasce, resta inorridito dalla presa di coscienza della propria condizione. Non riesce ad accettare di se proprio questa contraddittorietà. Per questo la tragedia attica da un lato da vita, al soggetto, ma dall’altro, ne è la cominciatrice della crisi. La crisi del soggetto nasce proprio dall’incapacità della tragedia successiva a quella di Eschilo, di accettare l’unità dell’azione e del pathos che il coro rappresentava dato che accettava di essere contemporaneamente più ruoli, di avere dentro di se un carattere polivalente. La crisi è l’incapacità di accettare la scoperta: la decadenza inizia nel momento in cui si accetta la dualità. Dove avviene la fusione compassione ed accettazione nel coro, avviene l’inizio della crisi della soggettività, che non è più in grado di accettare di rappresentare ciò. Comincià nella scoperta di questo “se” estraneo, comincia quando inizia l’opera di mascheramento, cioè quando i ruoli della tragedia si differenziano. È il Prometeo sbranato: unità ma anche molteplicità. Quando l’unità-molteplicità non è più sostenibile, inizia l’opera di mascheramento; quando l’opera d’arte perde la sua capacità di essere un’unitaria manifestazione e diviene rappresentazione ambigua, cominciando ad essere manifestazione di vari ruoli: soggetto, spettatore, attore…. Quando prende le “parti”, e nella tragedia, il declino, si deve essenzialmente a due ragioni: l’incapacità del soggetto di cogliersi nella sua unitarietà-ambiguità, ed il trasformarsi nelle “parti”che fa diventare la tragedia una azione mimetica, di mascheramento. Significa togliere all’atto artistico-teatrale quella connotazione di visione e pathos che sono propri della tragedia, con il coro come unico protagonista. La tragedia attica non mima, non imita, ma incarna direttamente la tragedia dell’esistenza. Per imitare si ha bisogno di qualcuno che controlli l’interpretazione, si ha bisogno dello spettatore, non si ha imitazione nella solitudine. L’imitazione presuppone necessariamente un pubblico. La tragedia fatta del solo coro vive direttamente la rappresentazione tragica, non ha bisogno di pubblico. È il pathos rappresentato a se stesso. Quando diventa un gioco di ruolo, quando comincia il mascheramento, il gioco delle parti, allora la tragedia non è più l’azione ripetuta che continua il conflitto vissuto dall’uomo. nell’esigenza di togliere il conflitto, con le parti, ogni ruolo assume un carattere, indossando una maschera. Nella rappresentazione quindi ad un certo punto ci si dividono le parti, si assumono delle maschere. L’uomo della tragedia diventa hypocrites (in greco = attore), ipocrita, perché è una maschera. Tutto diventa imitazione.
Mimesi e catarsi: Socrate, Platone e AristoteleDi lì a poco[16], quasi insieme alla tragedia di Euripide[17], nasce la figura di Socrate. Socrate è il vero demone apollineo[18].  Ma si sa, questi non ci ha lasciato alcuna opera, ma il suo pensiero ci è stato riportato da Platone. Platone nella Repubblica sostiene che l’arte va messa a distanza, perché confonde la coscienza. L’arte, come la poesia, sono arti mimetiche; è imitazione di imitazione. La realtà è già di per se imitazione del mondo delle idee. L’arte è quindi imitazione della realtà, che a sua volta è anch’essa imitazione. Dunque, non è in alcun modo utile alla conoscenza. Stuzzica le passioni, e le passioni non aiutano a conoscere. Aristotele cerca in qualche modo di recuperare il valore dell’arte tragica, ed afferma che è imitazione di un’azione “seria”. La tragedia è gioco di ruolo, è mimesi[19], ed ha per effetto quello di purificare dalle passioni, di purificare l’animo: la catarsi[20]. Aristotele, parlando di mimesi e catarsi, afferma che 1) ormai, è assunto che la tragedia, e che tutta l’opera d’arte sia solo imitazione, e 2) che se le passioni sono qualcosa da sciogliere, da mettere a distanza, da “scaricare”, da liberarsene, e ciò è possibile grazie alla tragedia. Questo significa che le passioni non si vivono; il compito dell’arte è che inventando, ha un effetto rappresentativo catartico: ci si libera della passione attraverso la visione, o meglio, attraverso la visione dell’imitazione. Se la tragedia e l’opera d’arte è mimesi, e la catarsi è la purificazione, ciò presuppone che bisogna liberarsi delle passioni, non bisogna crearle, ma liberarsene. Abbandonare Dioniso. Platone condanna per bocca di Socrate l’arte, la poesia, il corpo. Condannerà in maniera ineluttabile la dimensione corporea: il corpo è la palla al piede dell’anima. L’anima è razionale, il corpo è mera materia, quindi è solo un’inutile zavorra legata all’anima: senza il corpo, l’anima conoscerebbe davvero le “cose”. La razionalità è l’imitazione di ciò che la visione, la razionalità, l’uomo sono, ed è ciò che attende la liberazione del corpo. La morte è la catarsi dell’anima. Così come l’imitazione artistica della tragedia è la rivelazione delle passioni, la morte è la purificazione dell’anima dal corpo. È qui che nasce tutta la concezione religiosa e filosofica del pensiero occidentale.
Per questo per N. quella socratico-platonica è un’età di decadenza. Prevale l’idea della sussistenza dell’anima senza il corpo, che o torna nel mondo delle idee, nella concezione classica antica, o a dio, nella concezione cristiana. È comunque l’anima che conta. Si assiste ad una totale svalutazione del corpo, se non addirittura ad annullarlo, mortificando così il valore della natura, di tutta la dimensione naturale. Toglie questa concezione, alla natura il primato sulla razionalità. È naturalmente una concezione che N. non può accettare, lui, che mette al centro di tutto proprio il corpo: tutto dipende dalle funzioni del corpo, quindi dalla natura, che già di per se prevede le condizioni del suo stesso superamento. Anche la razionalità per N. è solo natura, e solo questa può porre le condizioni del suo superamento. Proprio su queste considerazioni si basa l’idea di N. che il pensiero occidentale nasca da questa tragica presa di coscienza. Il superuomo è colui che non ha paura di questa presa di coscienza, di questa visione. È colui che recupera la consapevolezza originaria, ma non la teme. È colui che ha la capacità e la forza di guardare la realtà, ma non mascherandosi, non insabbiando la verità. l’oltrepassamento è la dissotterrazione della natura che permette il recupero della dimensione dionisiaca, del pathos, del dolore, della gioia, e recuperare tutto ciò senza fuggire. L’oltreuomo guarda in faccia la tragicità dell’esistenza. Ciò che non è accaduto dopo la tragedia greca attica: l’uomo fingendo di voler sapere altro, è fuggito. Il superuomo è colui che ha la capacità di recuperare la consapevolezza senza fuggire: dice si! alla vita. Dice si! alla tragedia.
«Il grande Pan è morto!» e l’estasiDue sono quindi i motivi principali che mettono in crisi la visione unitaria-pluralistica del coro: da un lato la partizione dell’uomo, dall’altro la comparsa sulla scena di Socrate, che insieme ad Euripide è l’assassino della tragedia, coloro i quali hanno ucciso la soggettività. Che hanno avviata la lunga “agonia” dell’uomo. Il primo segnale che N. avverte è racchiusa nell’espressione «Il grande Pan è morto» (p.75)[21]. Pan[22] è il dio della foresta. La sua morte rappresenta il tramonto, la crisi del mondo mitico e segna l’inizio della storia. È l’affermazione che annuncia la morte della tragedia. È l’imprecazione che annuncia la crisi del dionisiaco, la fine della dimensione naturale. La sua immagine ci è stata tramandata come una creatura per metà uomo e per metà caprone, una creatura che già nell’immagine rappresenta la potenza della natura, ma ancora di più rappresenta l’animalità insita nell’uomo. La morte di Pan è la morte della natura e con essa dell’elemento dionisiaco. È proprio questo elemento dionisiaco che consente la conservazione dell’elemento naturale che consente l’estasi[23], l’uscita dal tempo. L’estasi è la condizione nella quale la frattura originaria si ricompone. Il tempo segnala la frattura, la perdita, il vissuto che non ritorna. L’estasi è l’interruzione del senso del tempo, e quindi l’interruzione del senso della perdita. Realizza la ricomposiziione dell’uomo: con l’estasi si esce dalla soggezione al tempo, con la conservazione dell’uomo nella sua unità-duplicità. L’estasi è propria della tragedia greca, ed è completamente diversa dalla catarsi: estasi = uscire fuori, sospendere la continuità del tempo; catarsi = liberazione dalle passioni. Estasi e catarsi sono due modalità di significazione dell’arte tragica. Se l’arte tragica è estasi, nasce il soggetto; quando diventa catarsi, il soggetto comincia a morire.
Il suicidio della tragedia: EuripideLa tragedia morì suicida perché fu la stessa cultura greca ad ucciderla con Socrate ed Euripide:

«Dioniso era già stato cacciato dalla scena tragica, cacciato da una potenza demoniaca che parlava per bocca di Euripide. Anche Euripide era in certo senso solo maschera: la divinità che parlava per sua bocca non era Dioniso e neanche Apollo, bensì un demone di recentissima nascita, chiamato Socrate. È questo il nuovo contrasto: il dionisiaco ed il socratico, e l’opera d’arte della tragedia greca perì a causa di esso.» (p.83)

Euripide inizierà quel processo che porterà la tragedia a diventare commedia, dove la finzione è l’elemento dichiarato della rappresentazione, perdendo quindi tutta la sua forza: il pathos. Nella commedia si sa già in anticipo che è tutto finto. Si ha una pre-comprensione, non c’è quindi più alcun pathos. L’ironia rappresenta la messa a distanza, secondo una concezione [già esposta in precedenza], che afferma che per conoscere la realtà ci si deve mettere a distanza, ci si deve depurare dalle passioni. La ragione è il solvente che depura la passione. Ma la purezza non è conoscenza. La conoscenza non è pura. La verità non è pura.
«Un demone di recentissima nascita»: SocrateSocrate rappresenta una figura fondamentale per tutto il pensiero occidentale, anche se il suo pensiero metodologicamente è compreso come puro pensiero, e non come pensiero scritto, non avendo egli lasciato alcuna opera vergata di proprio pugno. Per come la vede N. Socrate è il vero assassino della tragedia greca attica, ed in questo, trova l’attuatore, per così dire sul campo, in Euripide, che trasforma, decompone l’unità tragica rappresentata dal coro, creando le parti, gli attori, gli spettatori. Questa operazione corrisponde all’eliminazione del dionisiaco dalla tragedia. Si crea quindi quel nuovo contrasto di cui parla N. (p.83, ma v. sopra), dionisiaco versus socratico. La tragedia perisce a causa di esso. Con la morte della tragedia si assiste alla morte del soggetto. Il soggetto, che nasce col coro, muore, perché davanti a questa visione, si ritira. La tragedia attica è la trasfigurazione artistica dell’accettazione della piena “unità” delle polarità antropologiche, e nello stesso tempo segna la crisi del soggetto, diversa dalla crisi del soggetto moderno, ottocentesca, anche se hanno cause e ragioni simili, che è la crisi di una identità conoscitiva che si confronta con lo scacco della perdita di centralità. Il pensiero di N., che si riferisce cioè alla tragedia greca, è la crisi del pensiero che invece ha tenuto in piedi tutta la storia del pensiero occidentale. Con N. si ha quindi la crisi di una crisi: mette in discussione il soggetto contemporaneo, ben sapendo che si tratta di una crisi iniziata ventisette secoli fa. N. è lo svelatore, lo spettatore esaltato che corre sul palco e straccia il sipario. Lo straccia e si straccia perché tra rappresentato e rappresentazione non può esserci stacco. Ognuno nella “recita” ricopre tutti i ruoli: il ruolo del coro.
Socrate è colui che mette in crisi l’unità dualità Apollo-Dioniso, e che è l’iniziatore della fine della tragedia, e con la fine del tragico si assiste alla crisi del soggetto. N. per comprendere tutto ciò fa un discorso più generale che comprende tutta l’arte: il suo scopo è quello di dimostrare alla cultura del suo tempo, che esiste una relazione diretta fra scienza, e quindi conoscenza, ed estetica. Ma è proprio su questo punto che non riesce assolutamente a far breccia nella cultura del tempo: sostenere che la conoscenza nasce dall’arte, crea un conflitto potentissimo, se si considera che quanto affermato da Socrate era legge. L’arte da Socrate in poi è considerata solo imitazione, e l’imitazione è forse una conoscenza? La risposta data è stata un netto no! La conoscenza non imita, la conoscenza cerca la verità, l’arte invece è ludica, serve ad abbandonarsi, ma non cerca la verità. il «conosci te stesso» di Socrate serve a trovare la verità. Ma questa non è solo un’esigenza antropologica, l’uomo non può non essere in contatto con se stesso, ma il «conosci te stesso» diventa altro quando il «conoscere» diventa il cercare la verità.
La moraleIn Al di là del bene e del male, N. afferma: «Non esistono fenomeni morali, ma solo un’interpretazione morale dei fenomeni…». Questo illustra già abbastanza bene quale fosse l’atteggiamento di N. di fronte alla morale. Con questa affermazione provoca un altro sconvolgimento nel pensiero suo contemporaneo. Se non esistono fenomeni morali, vuol dire che nulla è morale in se, ma sono morali i giudizi degli uomini, e sono morali in base alle interpretazioni che si danno delle cose. Non esistendo la morale, ma solo interpretazioni morali di fenomeni, ciò vuol dire che non esiste neanche la verità. Cioè, quanto accade, accade. Tutto è un accadere senza valore. Le cose accadono, ed in quanto accadono, non c’è nessuna eternità. Ma nell’accadere delle cose, è insita un’esigenza, che è solo dell’uomo, l’esigenza cioè di interpretare questo accadere, e questa interpretazione si esprime attraverso le valutazioni della morale. L’uomo è colui il quale si mette sopra le cose, e le giudica, ma non esistendo fenomeni morali, vuol dire che è lui stesso che li crea. L’accadere di per se, non è né morale né immorale, lo diventa solo in relazione a chi ha a che fare con questo accadere. Stando in mezzo alle cose, è naturale che queste ci cadano addosso, e noi dobbiamo fare in modo che non ci danneggino. Ma l’uomo ha bisogno di sapere che queste provengono da qualche parte, di un’origine: l’accadere è la domanda intorno all’essere. Perché qualcosa e non il nulla? Questa è metafisica, che a differenza di quella socratica, è antropologica. Di eterno, rispetto al nostro rapporto con le cose, non c’è niente: siamo noi che costruiamo significati, intenzioni, sensi, sulle cose che ci accadono. La dichiarazione di N. contenuta nel suo Al di là del bene e del male, mette in crisi un altro pilastro del pensiero occidentale, cioè l’idea dell’eternità dei valori, sia delle cose che della morale. Si è dovuto cominciare a fare i conti con l’inversione di ruoli che sul versante scientificoaveva iniziato Charles Darwin. È un mettere le cose a posto, che nasce dal disordine, ma, man mano che si procede a mettere ordine, ci si accorge che questo ordine è solo fittizio. Finchè la morale ha creduto di poter fare ordine e che quindi quanto affermasse fosse verità, è stato esercitato il potere che il potente pensiero razionale aveva sull’uomo. QQQqQuando però si è raggiunto il nocciolo, o meglio, le fondamenta, ci si è accorti che tutto poteva crollare. L’uomo ha costruito un edificio meraviglioso che sta nel mondo, quando, improvvisamente, scendendo in cantina per vedere perché vibrava, ci si è accorti che non c’era alcun fondamento (Gabriel Marcel?). N. vuol indagare quando è cominciata la costruzione di questo edificio.
Le sue “prove” conducono a Socrate, colui che sin dal primo momento ha avuto uno stretto legame di tendenza con Euripide. N. riporta anche la legenda secondo cui lo stesso Socrate aiutasse Euripide a poetare. Inoltre, in quanto avversatore della tragedia, rifiutava di assistere alle sue rappresentazioni, a meno che non si trattasse di un dramma di Euripide. Secondo l’oracolo delfico, i tre sapienti dell’epoca erano 1) Socrate[24], 2) Euripide e 3) Sofocle.
Il Socrate morenteCome una figura che è già di per sé forte e profetica come quella di Socrate, è riuscito più che mai attraverso un gesto a consolidare il suo pensiero da farlo diventare la base del pensiero della modernità? Con l’immagine del Socrate morente; Socrate muore, anzi, accetta la morte in piena serenità. Ma come accetta la morte? Socrate accetta la morte, non per un gesto di eroismo, che si oppone al perpetrare di una ingiustizia, ma decide di morire per la verità[25]. Socrate era stato accusato di empietà, ma i suoi giudici gli avevano offerto di esiliarsi, ma non accetta l’offerta, dice no, accetta la morte perché con la sua morte egli deve affermare come definitiva l’idea di verità. Il nuovo ideale è la verità, e la verità non teme alcuna sfida, nemmeno la morte. Socrate non fa come Gesù, che accetterà la morte assumendo su di se le colpe degli uomini, perché si possano espiare le colpe degli uomini. In Ecce Homo, N. afferma che Socrate accetterà pure la morte per supremo ideale di verità, ma afferma anche che fu un atto di presunzione estrema pensando, Socrate, che la sua morte affermasse la verità. Allo stesso modo N. critica Cristo che afferma di morire per liberare, per salvare l’umanitàdalla colpa. Li critica perché nessuno dei due ha deciso di morire assumendo su di se la colpa. In fondo, Socrate muore per la verità, Cristo muore per le colpe degli uomini, quindi nessuno di questi gesti è fino in fondo esemplare, perché nessuno di questi gesti contiene l’assunzione su di se della responsabilità della propria morte. Ambedue muoiono in nome di qualche cosa d’altro. C’è una sorta di anti-eroismo in N.: l’eroe muore per qualcuno o qualcosa. Il sacrificio è la stimmata, la sublimazione dell’eroe, ma si cede la responsabilità su dell’altro. Nessuno dei due muore dicendo «la colpa è mia», cioè nesuno dei due muore assumendo fino in fondo la responsabilità dell apropria morte. È vero che nella concezione socratica della vita si assiste ad una sua svalutazione, ma il significato della morte di Socrate va colto nel senso che l’accettazione della morte da parte del filosofo, corrisponde ad una radicalizzazione del suo concetto di verità. Il suo gesto non dice: muoio e mi libero, ma corrisponde all’affermazione della verità. socrate non si sponta dalla strada dell averità, e non potendosi spostare, diventa egli stesso una istituzione della verità. N. nello Zarathustra afferma che la morte di Socrate e del Cristo, sarebbe stata più dignitosa se avessero assunto su di loro il peso della colpa: perché ci sia la morte è necessario avere la colpa. Per N. la colpa è un concetto prorpiamente ammaestrativo dell’umanità: se si considera la teologia, si osserva che il peccato è lo strumento con il quale si ammaestra il gregge, ma quando dice che sarebbe stato più “valoroso” per Cristo se morendo si fosse assunto la propria colpa, vuole dire che non è “eroico” esteticamente e conoscitivamente, “bello” in parole povere, che Gesù muoia per le colpe degli altri, perché qui, c’è si un atto eroico, ma non c’è la piena assunzione su di se della propria responsabilità. Il gesto di Cristo non è di consapevolezza, come sarebbe invece di colui che di fronte alla morte dicesse: «affronto la morte perché è colpa mia», in nome di niente, di nessuno, ma solo per se stesso. È il superamento dell’uomo, che in qualunque momento sa, ed assume su di se l’irrevocabile non ricorribilità ad altro. È l’essere responsabile fino in fondo. È l’accettazione della vita pur conoscendo la sua insensatezza. Dire si alla vita, significa, dire si anche alla morte ed al dolore. Il “problema” in Socrate e in Cristo, è che si sottomettono, spostano la responsabilità su “altro”. Siamo in presenza di uno sforzo di analisi, che se da un lato afferma in modo radicale l’insensatezza della vita, ma che dall’altro mette in primo piamo anche l’indissolubile legame con se stesso che ognuno ha. Il limite di ogni uomo è “se stesso”: un se stesso che fino in fondo bisogna accettare, comprendere e vivere. Il cristianesimo è insopportabile perché costruisce un “qualcuno” che mi perdona. Si crea una identità nell’individuo, che gli permette, in nome della sua irresponsabilità di agire in qualunque modo crede, perché tanto, c’è un qualcuno che lo perdonerà. Tutto ciò è anti-etico, anti-morale, e questo davvero, immorale, perché la fondazione della persona è in funzione e di chi si aspetta il perdono per il suo agire, ma è un mortale indebolimento dell’uomo, perché si rende giustificabile qualunque atto. È il problema del rovesciamento dei valori: tutta l’analisi di N. mette in evidenza il fatto che la costruzione del pensiero occidentale è fondata sulla finzione, su illusioni, su mascheramenti, che fa si che si faccia tutto in funzione della verità, mentre invece, tutto cercano tranne la verità. Che si abbia almeno il coraggio di non nascondersi dietro l’illusione della verità! E Socrate, l’uomo teoretico[26] per eccellenza, è nato con la crisi del soggetto.
L’illusione della scienzaL’interesse della scienza, non è la verità, ma è nella ricerca della verità. Per N. il più onesto uomo teoretico è stato Lessing, il quale «osò proclamare che a lui interessava più la ricerca della verità che la verità stessa: con ciò è stato svelato, con stupore, anzi con dispetto degli scienziati, il segreto fondamentale della scienza» (p.100). La scienza si illude ed ha bisogno di illudersi che ci sia la verità. Il segreto dell’uomo è quello relativo al fatto che l’uomo ha bisogno di illudersi. Ma perché l’uomo ha bisogno di illudersi? La fede, la scienza, la conoscenza sono illusioni, ma sono ciò che è necessario all’uomo, potrebbe l’uomo vivere senza tutto questo? L’affermazione di Lessing, in qualche modo si lega all’idea inaugurata da Socrate, cioè che il pensiero razionaleconosce attraverso le cause, ed attraverso le catene causali possa giungere alla conoscenza dell’essere o addirittura di correggerlo: «Questa sublime illusione metafisica è data alla scienza come istinto e la conduce sempre di nuovo ai suoi limiti,dove deve convertirsi in arte: a essa in realtà si mira con questo meccanismo» (p.101). L’idea che la scienza possa giungere alla conoscenza dell’essere attraverso l’illusione della verità, è una illusione che nasconde una metafisicità della scienza, perché pensare che attraverso un metodo, si possa giungere a comprendere l’essere, vuol dire credere, o meglio, illudersi, che la verità, ciò che per principio dovrebbe essere pura ed inattingibile, si possa invece raggiungere e farne uso. Ma questo è l’istinto della scienza, il dato naturale della scienza, e questa pulsione, istinto, che insegue quest’illusione che attraverso la conoscenza causale si possa giungere alla verità, urta ogni volta contro i suoi sistemi limitati, non riuscendo mai quindi a raggiungere la verità. Quando la scienza nella ricerca della verità, cozza contro i suoi stessi limiti, cioè l’irriducibilità della verità, essa diventa arte: «ad essa si mira con questo meccanismo» (v. sopra).
N. afferma, che Socrate la sera prima di morire si converte all’arte (p.103-104). Vi è un altro punto fondamentale: N. afferma che in fondo anche la conoscenza teoretica, quella socratica, riconosce, o quantomeno, intravede l’illusione della conoscenza, ma un teorico moderno come Lessing, nella sua affermazione, cioè «che a lui interessava più la ricerca della verità che la verità stessa», afferma dunque con certezza che ci sia: infatti pur affermando di non cercarla, ponendola come uno dei termini della sua affermazione, vuol dire che egli nasconde l’idea profondamente illusoria che la verità ci sia, anche se ipossibile da trovare.
L’ottimismo socraticoPerchè N. ce l’ha tanto con Socrate, e perché lo chiama ottimista? Il filosofo greco è un teoretico, cioè un filosofo che fonda la sua conoscenza sull’osservazione, si basa quindi sulla visione, sulla rappresentazione, ed il suo ottimismo è quello di colui che immagina che il mondo si risolva in una rappresentazione, e che la rappresentazione sia quello che noi costruiamo del mondo. Se il mondo è, come dice Schopenhauer, la mia rappresentazione, cioè ciò che si presenta a me, ciò che si presenta di nuovo, è la sua esteriorizzazione, ed io posso quindi costruire l’esteriorizzazione in modo tale da ricondurla a me, cioè fino in fondo conoscibile. L’ottimismo teoretico di Socrate è l’inizio della riduzione del mondo al “se stesso”, al “a se” che la filosofia classica e moderna producono come risultato dell’azione della ragione. Questa riduce il mondo ad una rapprsentazione. Ma cos’è che si elimina riducendo il mondo ad una rappresentazione, nel rapporto tra l’uomo ed il mondo? Si toglie la vita. Nel momento in cui si rappresenta il mondo, non si può far partecipare la vita, perché nella rappresntazione si cosifica tutto. Nella rappresentazione manca il divenire. La “rabbia” nietzscheana si scaglia contro questo, si scaglia contro questa filosofia senza vita. Si può conoscere qualcosa senza viverla? No! La conoscenza non può essere una rappresentazione. Ma, direbbe Platone, come si fa a conoscere una cosa potendola solo vivere, cioè non pensandola? Pur vivendola, non la si deve comunque pensarla? Per N., la conoscenza, per essere tale, ha bisogno dell’arte. Afferma che la conoscenza per potersi dare, ha bisogno dell’arte, ma non dell’arte intesa come una bella statua, ma della tragedia attica con il suo coro cioè l’esperienza della compresenza assoluta e radicale delle due facce dell’istinto e della ragione, Dioniso ed Apollo. Il soggetto, l’uomo, venuto a conoscenza della situazione, ha cercato ed è riuscito, attraverso l’arte, la musica, la tragedia, a tenere insieme almeno per un momento le due dimensioni, il momento in cui scopre la sua appartenenza all’unità, il che lo sottrae al principium individuationis, alla particolarità; è l’unità che lo mette in comunicazione col tutto. Il polemico N., l’ironico N., individua Socrate come il fondatore della cultura e del pensiero occidentale, e responsabile di un’ottimismo teoretico che è ottimista solo perché si illude di conoscere la realtà, dimenticando che la conoscenza si radica nell’istante in cui movimento e oggetto, divenire e oggetto sono compresenti. Il divenire dionisiaco e l’oggettività apollinea convivono, sono l’unione che per un momento realizzano la fusione fra la dimensione temporale e quella atemporale, fra la dimensione della vita, il tempo, e la dimensione della conoscenza, che è oggetto di relazione con il mutamento. Non c’è una conoscenza oggettiva, ma è sempre relativa, il che non vuol dire che è limitata. La conoscenza è sempre relazione: se io pretendo di costruire un mondo rappresentato attraverso il mio ottimismo teoretico, questo mondo sarà privo di “relazioni”. La conoscenza nasce dalla scienza estetica, dall’arte. L’arte nella sua specificità comunicativa, si colloca fra Dioniso ed Apollo, ponendosi all’origine della conoscenza, anche di quella razionale che N. critica. Egli cerca di capire come si determina la modalità conoscitiva, anche a prescindere del fatto che la critichi. C’è il N. genealogista che indaga l’origine dei fenomeni, ma c’è anche il N. teorico, il decostruttivista che mette dichiaratamente in discussione le forme del pensiero occidentale. Il nocciolo dell’indagine di N. è individuare nella nascita della tragedia, il momento in cui, l’originaria dualità umana si unificava. N. mette in grandissimo rilievo nella sua indagine ciò che Sigmund Freud chiamava inconscio. Riannoda una verità terribile tenuta nascosta centinaia di secoli. La nascita della tragedia, e quindi della suprema opera d’arte, è oltre che il momento in cui l’originaria dualità si riconpone, è anche il momento della nuova divisione: raggiunto l’apice, comincia il decadimento. Ma è tuttavia il luogo di origine della conoscenza. La ragione teoretica da vita all’arte teoretica, che crea quella forma di conoscenza che perde una delle sue polarità, quella dionisiaca, quindi l’arte ha bisogno di essere ricompresa. In pratica questa arte, essendo origine della conoscenza razionale, ha tradito se stessa, perché non ha saputo tenere insieme la dualità dell’uomo della conoscenza nell’unità umana, non ha saputo tenere unita alla dimensione finita alla dimensione dell’eterno, all’eternità. Per questo N. dopo aver criticato il pensiero socratico, introduce il dubbio che Socrate alla fine della sua vita si sarebbe volentieri dato alla musica, dove affermare questo equivale coll’affermare che in fondo, alla fine della sua vita aveva imparato ad apprezzare la profondità dell’arte: quindi la tragedia. Il Socrate vicino alla sua fine, che cerca di fare della sua riflessione, delle sue parole una musica.
La musicalità della scrittura: «Il mio stile è una danza»[27]È il problema che N. avrà per quanto concerne lo stile. La domanda è: come scrive un filosofo? Un filosofo deve creare una relazione col lettore, il che può avvenire solo se la scrittura ha un carattere di musicalità. Il discorso, la parola devono essere armonici, e l’armonia ha la sua musicalità. Si comprende bene quindi come lo stile di scrittura adottato da N. fosse decisamente diverso da quello dei filosofi a lui contemporanei. Per esplicitare meglio questo concetto, N. riporta (p.107-109) una lunga citazione di Shopenhauer tratta da il Mondo come volontà e rappresentazione:

«(…) La musica dunque, quando è considerata come espressione del mondo, è un linguaggio in sommo grado universale,che sta rispetto all’universalità dei concetti pressappoco nello stesso rapporto in cui questa sta rispetto alle singole cose. La sua universalità non è in nessun modo l’universalità vuota dell’astrazione, bensì un’universalità di tutt’altra specie, ed è legata a una completa e chiara determinatezza. (…) Tutte le possibili aspirazioni, eccitazioni e manifestazioni della volontà, tutti quei processi nell’intimo dell’uomo che la ragione getta nel vasto concetto negativo di sentimento, possono essere espressi nelle infiniti melodie possibili (…)».

Socrate musicistaÈ lo stesso problema che solleva la figura di Socrate quando alla fine della sua vita diventa “musico”, ed il dialoco diventa un tentativo di trasferire nel ragionamento discorsivo il problema della conoscenza oggettiva attraverso lo strumento della musica, ma rimane la parola, non la musica. Il pensiero di Socrate comincia ad essere il pensiero di colui che scrive: parla in funzione di una “scrittura scrivibile”, che sarà quella di Platone, che riporta le sue conversazioni. Tutto ciò ha inizio con il dialogo. N. dice che Socrate tenta l’operazione più difficile cercando di trasformare la sua idealità in forma musicale ma senza la musica, ma soltanto col dialogo. È il principio della conversazione pura, quella dei peripatetici[28], seguaci di Aristotele, di coloro che camminavano mentre filosofeggiavano. È quella forma di dialogo che nasce attraverso la perlustrazione del mondo, senza nessuna dimensione che non sia il suo stesso esercizio, e che quindi non ha bisogno di essere fermato, scritto. Indagando a fondo il lemma, si nota che è conposto da “peri” e “patein”, cioè soffrire muovendosi, passeggiando, camminando, vivendo. Socrate morente, il Socrate musico (p.96-98), cerca di introdurre la dimensione musicale nella filosofia, di rendere suonante il discorso, ma, è quanto afferam N., il problema è nella scrittura, proprio lo scrivere, toglie alla riflessione filosofica parte della sua musicalità. Nella tragedia attica invece, abbiamo coro e musica, abbiamo quindi nel coro entrambe le polarità dionisiaco-apollineo, quindi tutta la ricerca è in un vissuto che è complementare, del dentro e del fuori, del profondo e del superficiale, musica e parola.
L’esperienzaLo spettacolo borghese, simbolo della rappresentazione, è il mondo della polis greca che mette in mora la tragedia, portandola col suo ottimismo ad essere pura rapprsentazione, con gli attori e gli spettatori, che si riduce solo all’esteriorità, alla dimensione solo apollinea, di ciò che si manifesta. Si assiste ad un denaturamento della vita, al soffocamento degli istinti. La catarsi come momento espulsivo: gli spettatori, perduto il ruolo di partecipazione come avveniva con il coro, diventano solo dei vuoti “osservatori”, partecipando al momento dell’espressione della tragicità della rappresentazione solo in maniera catartica. Ma non è il vissuto! È solo un “vissuto” imitativo, anzi, imitato. E la tragedia invece, non può che essere un vissuto, e quindi vissuta fino in fondo, e non può ridursi a mera rappresentazione. L’operazione che N. contesta, è proprio questa espulsione, l’espulsione della vita: la vita resta fuori dalla conoscenza, ed è possibile una conoscenza dopo l’espulsione della vita? No!, si riduce a pura illusione, perché la conoscenza è esperienza[29], la conoscenza è vita! L’esperienza è l’incontro tra due “soggetti”, o di un “soggetto” con un oggetto. L’esperienza è sempre un incontro, vuol dire entrare in contatto. È un “passaggio”. Ma l’incontro è anche il “passare attraverso”, è incontro ma anche scontro. Il vivere è dunque provare un’emozione, una passione, ma è anche dolore. Il tema ricorrente in N., è l’affermazione del fatto che tutta la filosofia occidentale, decidendo di conoscere, sacrifica il vissuto, “toglie la vita”. Questa riflessione, non toglie il fatto che si possa pensare e riflettere sul vissuto, ma si può farlo solo se si riconosce che ogni atto di razionalizzazione, oltre che essere di presunzione, è solo rappresentazione, ed è quindi un isolamento dalla vita. N. contrappone ad una “critica della ragione pura”, massimo esempio di rarefazione dell’intelletto, una possibile “critica della ragione emotiva”, con l’implicita affermazione che la ragione non può essere pura, che è necessariamente impura, perché non prescindibile dalla vita. L’uomo non è un’idea e nemmeno un’oggetto. La ragione pura è pericolosa perché ha ucciso la tragedia, e ridotto l’uomo all’essere mascherato del nichilismo passivo e reattivo, che fa nascondere l’uomo dietro la giustificazione della ragione pura. Il nichilismo è impossibile da evitare, una volta accettata, pur senza rassegnazione, l’insensatezza della vita, ma il nichilismo si converte nella costatazione e affermazione della vita come volontà. La rappresentazione borghese è solo un “salto” che toglie la vita. Socrate è colui che attraverso la dialettica ottimistica, mette alla porta la musica dalla tragedia. La tragedia di cui parla N. è quella che ha bisogno della musica, cioè della vita. La tragedia è il frutto della vita greca nella sua pienezza, all’apice, e che si rappresenta come spettacolo che contiene non solo la dimensione spettacolare, ma anche la dimensione estetica, di vissuto, e la contiene perché ha capito che la vita è tragica. La vita è una tragedia. È il tentativo di applicare alla vita la consapevolezza di questa dimensione irriducibilmente istintiva e contemplativa, razionale ed estetica. Ogni tentativo di espulsione di questo, è espulsione della vita. Con la tragedia, la guardavano in faccia, la vita. Quando si parla di una “critica della ragione emotiva”, o “patica”, si intende il fatto che N. tanta di riaffermarele ragioni di una conoscenza che può essre fondata solo sulla vita, solo di vita, cioè un sistema che può esistere solo se la vità comprende la ragione, e se la ragione comprende la vita.
Il suicidio della cultura grecaN. si chiede come mai, nonostante le sue stesse denunce, il pensiero di Socrate ebbe tanta fortuna, e quindi da cosa scaturì la decadenza del vero mondo greco, quello della tragedia. I Greci, da Socrate in poi, videro nei loro stessi predecessori il nemico fondamentale della conoscenza, e dunque vide nella cultura greca, quella armonia, profondità, che faceva dire ai Greci, che tutti erano barbari (stranieri). Socrate si accorse e capì, che la cultura greca era una cultura così grande, che non si poteva far altro che distruggerla: aveva raggiunto il vertice con la tragedia, con la consapevolizzazione, ma l’aveva anche accettato (p.98-99). La tragedia è di un popolo che riesce a convivere con la sua consapevolezza. Di fronte alla quale accetta attraverso la tragedia, la consapevolezza dell’uomo, la tragedia dell’uomo, e sa conviverci, ogni altra forma di consapevolezza è solo imitazione. Socrate in pratica, secondo N. afferma che davanti a tale “altezza”, ci si doveva allontanare. Dichiara, N. che il mondo greco, rendendosi conto della irrangiungibilità del periodo “tragico”, irripetibile, si abbandona alle parole di Socrate, si avvia sulla strada dell’ottimismo teoretico, della razionalità, della rappresentazione. N. con il suo pensiero, cerca di far cambiare la rotta, la dimensione, cerca di arrestare la caduta, con uno sconvolgimento radicale, come fece Socrate. Egli pensa di essere il compimento del pensiero occidentale e cerca di iniziare una nuova epoca. N. sperimenta la vita fino in fondo, riuscendo a mantenere la lucidità di riflessione. Il passaggio dalla dimensione tragica a quella teoretica è il passaggio con il quale la dimensione mitica prende congedo dal mondo. Il mito è la narrazione del vissuto nella sua pienezza; la vita è mitica, irriducibile alla storia. La vita è mitica perché non è riconducibile ad un racconto. La storia è il racconto di fatti, i fatti sonolì, la vita invece, è ciascuno di noi, non riducibile a storia.
Senso e significatoIl senso ci orienta nel mondo. Il senso apposto al significato è l’orientamento nell’universo dei simboli, ed è anche profondamente difficile da dirsi, irriducibile al significato e continuamente spingente verso una sua possibile manifestazione. Un tentativo di cogliere il mondo non può limitarsi ad una collezione di significati. Cogliere il mondo deve rappresentare necessariamente anche un muoversi intorno alla profondità del senso. Conoscere non può non venire dall’unità istantanea che l’arte esprime. Ecco perché la scienza, tutta la conoscenza nasce dall’arte. Questo è lo scandalo che suscita il libro di N. La nascita della tragedia. Per la cultura borghese, sentirsi dire che l’arte è alla base della conoscenza rappresenta qualcosa di inconcepibile. Siamo infatti in pieno periodo positivista, con la sua idea di valutare deterministicamente e quindi riduttivamente la realtà, che secondo questa corrente, aspetta solo di essere misurata e capita e quindi ridotta al livello teorico-matematico. È il periodo dove maggiormente l’arte è vista come qualcosa di alieno. Non è un caso che il positivismo sia conseguente anzi per meglio dire, nasca come reazione all’idealismo ed al romanticismo, che al contrario hanno enfatizzato l’arte, il sentimento. È la risposta ad una valorizzazione di queste manifestazioni, che secondo questo orientamento vanno ridotte, limitate, perché visti come i residui della naturalità, scorie della nostra origine animale, dell’attività puramente ideale del pensiero filosofico idealista. Non hanno alcun valore, o meglio, non hanno alcuna “utilità”. Per il positivismo è centrale, fra le altre, anche l’idea dell’utile, della spiegazione del mondo in base al funzionale. Quando si dice senso, questa parola implica un’interpretazione, ma il senso più profondo cui allude, è la vita, l’affermazione della vita rispetto alla morte. Il “senso” che più di tutti mette in crisi, quello più radicale, è il non sapere cosa accadrà dopo la morte: la temiamo perché si sa che “toglie” la vita, e non si sa cosa succederà dopo. Il senso più profondo è chiedersi, cosa accadrà dopo la morte? L’uomo si interessa alla propria salvezza, al suo destino, che è la “totalità”.
Il superamentoIl nichilismo che N. dichiara è quello di chi scopre, sa, che non c’è alcuna salvezza e che quindi la vita non ha senso, se affermiamo che il senso della vita sia la sua salvezza, ma ciò nonostante la vita va accettata, vissuta: è l’unico modo di accettare questa terribile consapevolezza. Allora il senso della risposta «la vita non ha senso», è il superamento. Come si supera la semplice volontà di vita della vita stessa? È la volontà di potenza della vita che si vuole conservare, e in questo gioco di forze, l’uomo è coinvolto. Questa è la più alta volontà di potenza, ma questa non è altro che volontà fine a se stessa, è il volersi della vita stessa. Di fronte all’impossibilità della salvezza, siamo davanti ad una sfida: o ci si chiude in un isolamento della vita, come fa il nichilismo passivo; oppure si comincia a fingere, fingendo di mascherare la vita con illusioni, come fa il nichilismo reattivo; oppure, si ha il coraggio di guardare, fino in fondo in faccia la realtà, e diciamo SI! alla vita, accettandola pur consapevoli della sua insensatezza. C’è uno scontro fra la cessazione delle illusioni, e che la vita, anche in quanto tale è da vivere, e la consapevolezza o ci porta alla disperazione, o accettiamo la volontà di potenza della vita, e compiamo un gesto che potenzia la volontà di potenza: la superiamo. Non è una risoluzione, ma una posizione fra posizioni che cerca di dare una dimensione reale alla riflessione filosofica. Non è un casche figlio del nichilismo sia l’ESISTENZIALISMO.
Decadimento della musica tragica: l’operaUna delle trasformazioni che N. nota, riflettendo da un lato sul problema della tragedia greca, e dall’altro sul problema della conoscenza moderna, la ricerca analizzando la modalità con cui la tragedia si trasforma nella sua struttura di opera d’arte. Un punto su cui insiste (nei § 17-20) è quello nel fare un parallelo tra la trasformazione della tragedia operata nella cultura classica, e la distinzione del tragico nella cultura moderna, cioè quella a lui contemporanea. Gli elementi caratteristici che segnalano questo processo di decadimento della tragedia, ma di tutta l’arte in generale, nel XIX secolo, sono caratteri fondati sulla forma attraverso la quale, nella tragedia classica si afferma un nuovo tipo di rappresentazione, sia l’ascesa dell’arte moderna nell’opera.. N. sostiene che in fondo la vere ferite inferte sono state quelle prodotte dalla sparazione dell’uomo, da un lato, e dall’altro lato quella della scomparsa dello spazio dedicato alla musica come generatrice di immagini mitiche, che dal mito possono emergere. Quando il tutto si riduce alle parole, si perde questa funzione. Quando la musica viene tradotta in parole col dialogo teoretico, ed anche nell’opera, la musica si oggettiva, si formalizza, si rappresenta. È una musica non più di Dioniso, ma di Apollo, è una musica che non è più musica. Caratteristica del pensiero di N. è la ricerca dello stile cui pone molta attenzione, perché ritenuto essenziale sente che anch’esso è esposto ad essere esposto allo stesso rischio. Il rischio che si corre è quello di non riuscire nell’opera di riflessione, a trasmettere quel contenuto musicale che è co-essenziale al pensiero stesso. È co-essenziale al pensiero consapevole e liberatorio: consapevole perché è il pensiero che è a conoscenza della sua esistenza tragica, e liberatorio, perché quel pensiero trova le ragioni della libera accettazione del tragico stesso. Per N. filosofare, riflettere, significa pensare sul/il tragico. Pensare sopra la tragedia, e pensare questo significa tenere sempre presentequesta consapevolezza di irriducibilità ad alcuna forma che possa togliere la dimensione tragica.

«Ora che il genio della musica era sfuggito alla tragedia, la tragedia era, in senso stretto, morta: donde si dovrebbe infatti poter attingere ora quella consolazione metafisica? Si cercò quindi una soluzione terrena della dissonanza tragica; l’eroe, dopo essere sufficientemente martirizzato dalla sorte, raccoglieva con un ragguardevole matrimonio o con onoranze divine una ben meritata ricompensa. L’eroe era diventato il gladiatore a cui, dopo che era stato bellamente scorticato e coperto di ferite, si donava talvolta la libertà. Al posto della consolazione metafisica è subentrato il deus ex machina». (p.117)

La contraddizione per NietzschePer N. la contraddizione è la condizione intrinseca del pensiero stesso. Quindi, nella sistemazione filosofica di N. la contraddizione non deve sorprendere. N. la rivendica e la pratica, perché a lui non interessa il discorso come logica, ma solo come musica, e questa non è solo assonanza, ma anche dissonanza. Nella vita dell’uomo, se c’è da cercare un’essenza, una della dimensioni essenziali, questa è la dissonanza dell’uomo. L’uomo non è accordo, ma dissonanza. Ogni forma di contraddizione esalta questo dato fondamentale della dissonanza e dell’impossibile accordo. È nel gioco polare, delle trazioni fra principium individuationis di Apollo, versus il principium dissolutionis di Dioniso. Una polarità, un gioco di forze che non annienta, ma separa, disperde. È il dissolvere rappresentato da Prometeo, colui il quale è fatto a pezzi, a brani, ma non perché è a pezzi la sua unità corporea, ma è a pezzi la sua identità, la sua relazione col mondo.
La critica di N. sulla crisi della tragedia attica, è la critica alla dominante omogenizzazione del mondo, e degli uomini, che illusoriamente si bea di avere del mondo un’idea unitaria. Si spiega così il nichilismo “cattivo” indicato da N.. Il nichilismo passivo è di chi prende coscienza del dramma dell’uomo, di chi si rende conto di un’impossibile non-tragicità della vita, e tuttavia non vuole soffrire, non vuol patire, e così se ne allontana. Mette l’irriducibile conflitto il più posssibile a distanza, individuando nel conflitto, il vivere. Ma così facendo, allontanandosi dal conflitto si allontana dalla vita. Sente l’attraversamento della vita come dolore, e per scampare a questo da cosa soltanto si può allontanare? Dalla vita stessa. Schopenhauer si allontana dalla vita, rifiutsa di attraversarla per non soffrire. Il nichilista reattivo, il borghese quindi, finge che non ci sia alcun conflitto perché non è capace di sstenere il confronto. Ma siccome non può non attraversare la vita, per far soldi, per far successo, si rappresenta solo la parte migliore; rende tutta la vita logico-razionale, rende tutto esplicabile. “Spiegare”, vuol dire “eliminare le pieghe”: questo è ciò che fa, elimina le pieghe della vita; è l’opposto della “comprensione”, che vuol dire “prendere insieme”, il buono come il cattivo. Il borghese spiega la vita, e per spiegarla la deve rappresentare, e spiegandola, ancora, la rende lineare, perfetta (il migliore dei mondi possibili, direbbe Leibniz). Si camuffa la vita, la si spaccia per ciò che non è. È quindi il nichilismo di chi pur consapevole del conflitto, non resta a distanza dalla vita, ma finge che il conflitto non ci sia; non fa altro che rappresentare la conoscenza come un quadro che può essere completamente “spiegato”. C’è poi il nichilismo attivo, di chi accetta il conflitto, consapevole che esso è irriducibile, consapevole che la forza della vita lo sovrasta, che accetta la sua polarità, la sua duplicità, e che nonostante tutto ciò, nonostante la vita lo dilani, accetta di essere dilaniato. È in questa acccettazione che N. vede quell’istante in cui, per una frazione di secondo l’umano si sovrappone alla vita. Riesce a superarla. Non viene messa a distanza, ma viene smascherata. La potenza della vita, che è cieca, senza progetto, viene superata dalla consapevolizzazione dell’uomo, che accetta la vita stessa, e nello stesso momento la supera.
ConclusioneN. alla fine del libro, afferma di vedere delle premesse che potrebbero far si che lo spirito tragico possa tornare a nascere nell’epoca moderna. N. ha costruito la sua opera su tre livelli: Wagner, la critica dell’arte tragica, la nascita del soggetto. In particolare, è nella nascita del soggetto che intravede le condizioni di una rinascita della tragedia, come fu quella di Eschilo.
Figura emblema di questa rinascita della tragedia, che è anche rinascita di tutto lo spirito tedesco, iniziata con la riforma luterana, ed in particolare col corale (p.153), è Richard Wagner, perché egli con la sua musica riesce ad esaltare la dimensione primaria, primigenia, cioè attinge alla “musicalità” in un moto di non-formalistica celebrazione esteriore del discorso musicale, ma cerca diattingere dal profondo, come avviene in opere come Parsifal. Come attraverso la musica della tragedia attica (il canto popolare), i greci riuscivano ad attingere al mito classico, con la musica di Wagner avviene la stessa cosa, si attinge alla mitologia tedesca. Un processo che con il corale luterano richiama fortemente al canto popolare attico. Ma se il modello della tragedia greca attica è il modello perfetto, quanto meno la si può far rinascere.
Mentre nell’arte musicale vede in Wagner un nuovo modello, per quanto riguarda la filosofia e il pensiero, vede in Immanuel Kant e Arthur Schopenhauer due modelli. «All’enorme coraggio di Kant e Schopenhauer è riuscito di cogliere la vittoria più difficile, la vittoria sull’ottimismo che si cela nell’essenza della logica…» (p.121).
Più che come modelli, vengono apprezzati come i due pensatori che a distanza di secoli riuscirono a mettere in discussione il socratismo. Sono modelli che rifiuterà, soprattutto dopo la definitiva teorizzazione dei tre diversi tipi di nichilismo, ma a cui comunque rendeva merito. Kant per primo aveva messo in discussione il socratismo, pur se con ragioni ma tuttavia consonanti con quelle di N.. Kant aveva compiuto dal punto di vista filosofico una rivoluzione straordinaria perché aveva assunto come principio fondamentale della conoscenza, che questa dovesse avvenire a determinate condizioni, e che quindi non ci fosse la necessità metafisica della conoscenza. Conoscere non è il destino dell’uomo, egli può conoscere solo se si danno alcune condizioni a priori. “«Si conosce a condizione che…»” significa che la conoscenza non è una dimensione eterna, ma fa parte del “disegno divino”. La conoscenza diventa quindi per principio limitata. Si tratta di andare a cercare i limiti della ragione. Si possono conoscere solo determinate cose, ciò che si manifesta, i fenomeni. Questo “cogliere i limiti della ragione” rappresentava una sferzata alla tradizione filosofica dei pensatori fino a Wolf, che aveva la pretesa, si illudeva di poter conoscere la “totalità”. Kant è il filosofo che “ammette” per la prima volta i limiti della capacità cognitiva della ragione. Senza le condizioni formali, se non c’è “fenomeno”, non c’è conoscenza. Comincia quel processo in cui l’uomo perde via via importanza, in diretta proporzione all’assunzione di consapevolezza dei propri limiti.
Schopenhauer è invece colui che per la prima volta[30], come fondamentale la dimensione del dolore dell’esistenza. La tematizzazione del “mondo come volontà”, era la testimonianza del fatto che l’uomo può opporsi in un solo modo all’insensatezza, al dolore, alla volontà, cioè con un’ulteriore volontà, la volontà di dire NO: la noluntas. La noluntas è l’unica via per sottrarsi al dominio della vita sull’uomo, all’irriducibile sottomissione al mondo delle apparenze, della rappresentazione. È l’unico modo per non essere schiacciato dalla volontà autoaffermativa della vita. La noluntas è il non volere la vita. È la non-volontà.
N. muove dunque, al termine della sua trattazione, tre critiche fondamentali, che colpiscono tre diversi aspetti della cultura del tempo. La prima critica è per il pensiero di tipo buddhistico, cioè quelo che sfocia nel nichilismo passivo, di cui il rappresentante è Schopenhauer. Critica proprio il suo concetto principale, quella noluntas che predica il distacco dal mondo e dalla vita.
Poi critica la cultura cosidetta “socratica”: cioè tutta quella cultura reazionaria, quindi il nichilismo reattivo, e di cui Socrate ne è il prototipo, che è totalmente scientifica, il solo “potere” riconosciuto è quello della logica (a Kant e Schopenhauer N. da almeno il merito di essersi, per primi opposti allo strapotera di questo pensiero). È il tipo di pensiero che fonda tutto come rappresentazione, è la cultura dell’ottimismo teoretico di derivazione socratica.
La terza critica è riservata all’arte sua contemporanea, tutta, dalla musica alla letteratura, in una critica che coinvolge nel suo discorso direttamente l’artista. N. critica il concetto di “eroe” che pretende di essere il modello dell’esperienza umana. Critica nell’opera d’arte contemporanea, la devitalizzazione della stessa arte, è ormai un’arte affettata, risultante di un oprocesso di trasformazione degenerativo. Degenerato nel senso di una totale dimenticanza delle radici dell’uomo che affondano nel “mito”. Nel discorso specifico sulla musica, si sofferma a criticare duramente lo “stilo rappresentativo”, frutto di un «uomo artisticamente impotente» che «non ha sentore della profondità dionisiaca della musica, egli trasforma il godimento musicale in retorica intellettualistica di parole e di accenti della passione…» (p.127). la rinascita secondo N. è possibile, ma solo se si prendono come modelli Bach, Beethoven e Wagner.

Alla fine di tutto, la domanda non può che essere: che cos’è l’uomo? L’uomo è dissonanza. E cosa altro pottrebbe essere?


GIOVANNI GIUSEPPE ALBANO



[1] Il pensiero di N. è influenzato da Schopenhauer; egli mirò infatti ad applicare alla storia una concezione in parte analoga alla schopennhaueriana analisi dell’arte e considerò lo spirito profondo della storiografia più vicino ad una forma d’arte che una scienza. N. critica l’ottimismo razionalistico hegeliano che vede nella storia «la marcia inarrestabile dello spirito del mondo». Rifiuta inoltre la pretesa di considerare l’età presente come la «consumazione di tutti i tempi» e il vertice ultimo della verità e della civiltà. Tale concezione misconosce la grandezza del passato (che spesso N. oppone alla democrazia moderna per  la quale non aveva molta simpatia) e nel contempo tende a  giustificare le tragedie e i crimini della storia in quanto necessari a promuovere la realtà del presente. Lo storico invece non deve rinunciare a un giudizio morale, evitando però ogni travisamento moralistico della realtà; egli deve armarsi di un severo pessimismo critico, per essere libero dalle predilezioni e dalle credenze personali o dalla mentalità e dal costume sociale contemporaneo. La storiografia autentica nasce da una contemplazione disinteressata e disincantata che ha di mira gli aspetti durevoli e profondi dell’umana esperienza. (v. Nietzsche,  enc. Garzanti, Filosofia)
[2] Il problema di Schopenhauer è la liberazione definitiva dalla volontà, che lo rende schiavo. Liberarsi dalla volontà di vivere, che può avvenire solo dopo la comprensione della natura negativa della volontà stessa, che è un susseguirsi di bisogni e desideri cui fa seguito la noia. La natura poi, si cura solo della sopravvivenza, trascurando l’individuo. La storia è il susseguirsi di un unico destino, e non progresso e perfezionamento, il destino del bisogno e della mancanza che governano la volontà. Resosi conto di questa negatività, l’uomo è indotto ad abbandonare la volontà di vivere, che gli appare un male, anzi, l’origine stessa del male, per accedere alla noluntas, alla nolontà, in cui consiste la liberazione. Questa ha tre livelli. Il primo è quello della giustizia per cui l’uomo riconosce se stesso ed i propri simili, come la rappresentazione di una volontà unica, che pone freno alla lotta degli individui. Il secondo è la bontà intesa come amore e compassione per gli altri che sono pari a noi, ed in balia dello stesso destino. Il terzo livello è l’ascesi che si distingue dalla giustizia e dalla bontà; nell’ascesi l’uomo non si sforza di mitigare la propria volontà nutrendo compassione per i propri simili, ma prova orrore per la volontà stessa di vivere. L’ascesi è «l’orrore dell’uomo per l’essere di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l’essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore». (v. Schopenhauer, enc. Garzanti, Filosofia)
[3] F.W.Nietzsche Così parlò Zarathustra, trad. it. di Anna Maria Carpi, Newton Compton, p. 41
[4] Tutte le citazioni de La nascita della tragedia, F.W.Nietzsche, ed. it. Adelphi a cura di Colli e Montinari.
[5] La dialettica trascendentaleSe la facoltà conoscitiva pretende di estendere l’uso dei concetti a priori oltre il limite dell’intuizione, essa cade vittima di un’illusione.spiegare tale illusione, tuttavia non equivale a dissiparla, poiché si tratta di un’illusione «naturale», che ha la sua sede nella ragione. Essa è legata al tentativo che la ragione effettua di risalire la serie delle condizioni; in tale tentativo, la ragione perviene a concetti a cui non può corrispondere alcun oggetto di esperienza. A essi non compete quindi alcuna funzione costitutiva, ma solamente l’ufficio «regolativo» di indirizzare all’ampliamento e all’unificazione sistematica del sapere. Kant chiama «idee» tali concetti, e in questo senso definisce la ragione facoltà prodruttrice delle idee. Esse sono: l’anima, il mondo, Dio; al che corrispondono altrettante dottrine della «metaphysica specialis» di Wolff (psicologia, cosmologia, teologia «razionali»), che Kant si da a demolire partitamente. (v. Kant, in enc. Garzanti, Filosofia,)
[6] La filosofia di Schopenhauer si pone all’intersezione di più influssi culturali, il razionalismo illuministico, di cui rifiuta l’ottimismo; il romanticismo, pur avversando l’idealismo; la mistica cristiana ed orientale. L’apporto fondamentale è però apportato dalla filosofia di Kant, da cui deriva la distinzione fra fenomeno e noumeno, pur distacandosi dagli intenti di Kant nell’attribuirgli il significato. Per Kant il fenomeno è l’unico dato conoscibile all’intelletto umano, e il noumeno assume la funzione di puro concetto limite; per Schopenhauer, invece, il fenomeno, inteso come rappresentazione, è pura apparenza, ed il noumeno, inteso come volontà, è in qualche modo esperibile. In Kant gli “a priori” dell’esperienza, sono lo spazio ed il tempo; Schopenhauer per contro concepisce la rappresentazione come rapporto tra soggetto ed oggetto nell’atto conoscitivo, anteriore anche allo spazio ed al tempo, i quali si danno all’interno della rappresentazione stessa. Nella rappresentazione l’oggetto esiste per il soggetto solo in base all’azione che esso esercita nello spazio e nel tempo. Questa azione si verifica secondo nessi di causa ed effetto. La causalità è il principio di ragione sufficiente. Quindi la rappresentazione è determinata da spazio tempo e causalità: è questo il principiun individuationis, il quale isola i fenomeni. A questa si contrappone la volontà, che è unica: se la rappresentazione è regolata dal principio della ragione, la volontà è irrazionale. La volontà unica, oggettivatasi e individuatasi nei singoli esseri, si trasforma nel principio di una lotta perenne che contrappone gli egoismi individuali. Si tratta allora di sottrarsi alla volontà di vivere che lacera il mondo della rappresentazione. (v. Schopenhauer, in enc. Garzanti, Filosofia,)
[7] Nella “Critica della ragione pura” Kant rigetta una concezione che tra rappresentazioni sensibili e rappresentazioni intellettuali fa posto solamente a una differenza di grado: dal confuso al distinto. Una differenza secondo Kant che non concerne né il contenuto né l’origine delle nostre rappresentazioni. Kant individua nella sensibilità e nell’intelletto due fonti specifiche del conoscere, inammissibili l’una all’altra. Intuizioni e concetti sono per Kant gli elementi il cui cooperare è indispensabile affinchè si dia in genere conoscenza, cioè un pensare dotato di contenuto oggettivo. Kant ammette quindi che ogni nostra conoscenza comincia con l’esperienza, ma soggiunge: essa non deriva però interamente dall’esperienza, che non fornisce una validità universale e necessaria. (v. Kant, in enc. Garzanti, Filosofia)
[8] Kant distingue un significato positivo ed uno negativo di noumeno. Nel primo caso designa l’oggetto di un’intuizione, non sensibile, ma puramente intellettuale, intuizione di cui l’uomo non è fornito e dalla quale non può neppure comprendere la possibilità; nel secondo caso designa una cosa fatta astrazione dall’intuizione sensibile che noi ne abbiamo, cioè come pura negazione di ogni determinazione sensibile. Il concetto di noumeno è pertanto problematico e designa un «limite». Esso infatti non contiene contraddizione, ma non può trovar corrispondenza in alcuna verità conosciuta. Si tratta cioè di una rappresentazione vuota alla quale non sono applicabili le categorie dell’intelletto e la cui unica funzione è quella di «tracciare i limiti della nostra conoscenza sensibile». È solo in sede pratica che il concetto di noumeno trova applicazione, in quanto designante la volontà libera. Il termine noumeno è poi usato anche da Shopenhauer in un’accezione simile a quella kantiana, per indicare la volontà cieca, universale e assoluta, essenza reale del mondo illusorio delle rappresentazioni fenomeniche. (v. noumeno in enc. Garzanti, Filosofia)
[9] La concezione kantiana dello spazio e del tempoLo spazio e il tempo sono concepiti da Kant come antecedenti l’esperienza, ma dalla parte del soggetto. Vengono a far parte della nostra costituzione soggettiva, quali forme a priori della sensibilità: del senso interno, il tempo; del senso esterno, lo spazio. Ciò non li priva di validà oggettiva,ma fa si che questa sia limitata agli oggetti in rapporto a noi («fenomeni»). Gli «oggetti per noi» rimandano a, o presuppongono, degli oggetti in se; ma quest’altro riguardo ci resta precluso. Le cose in se non rientrano dunque tar gli oggetti della nostra conoscenza, si situano al limite di essa , come oggetti possibili di puro pensiero («noumeni»). È nei limiti stabiliti dalla distinzione tra fenomeni e cose in se che la fisica newtoniana si rivela inattaccabile, con le sue leggi in ferrea corrispondenza con le verità geometriche. Quanto a quest’ultime, Kant rileva che lo spazio, così come il tempo costituisce un tutto unico che non si esaurisce e non si identifica con nessuna porzione determinata, e che proprio in quanto tale, è capace di contenere una moltitudine di rappresentazioni infinita. Dalle intuizioni spaziali empiriche risulta possibile allora sceverare un’intuizione pura, in termini esclusivamente di figurea ed estensione; e ciò spiega la possibilità per la geometria di esporre le proprietà dello spazio costruendo proposizioni sintetiche a priori mediante un’intuizione pura. Analogamente l’aritmetica costruisce i suoi concetti nell’intuizuione pura del tempo, senza di che l’intelletto non sarebbe in grado di pervenire, dalla mera nozione di una somma, un risultato determinato. (v. Kant, in enc. Garzanti, Filosofia)
[10] Se la rappresentazione è regolata dal principio di ragione, la volontà sarà irrazionale. Su ciò si fonda l’irrazionalismo di Schopenhauer, in quanto la ragione, agisce solo nel mondo della rappresentazione, che è fondato dalla volontà, la quale, dunque,non è sottoposta alla ragione. La volontà è quindi un principio unitario e irrazionale e si oggettiva nella rappresentazione secondo gradi diversi, ognuno dei quali costituisce un’idea (nel senso platonico) cioè un modello eterno o una specie, che si moltiplica nella rappresentazione per opera di spazio, tempo e causalità. (v. Schopenhauer, in enc. Garzanti, Filosofia)
[11]  Kant affronta il problema morale muovendo dal punto di vista dove l’uomo è contemporaneamente sensibilità e ragione, per cui se fosse solo sensibilità, a guidare la sua azione sarebbero gli impulsi sensibili del desiderio, mentre se fosse solo ragione, ogni suo atto volitivo sarebbe per se stessa razionale. L’uomo essendo sensibilità e ragione può seguire questa o quella, cioè è libero di scegliere le pulsioni sensibili o gli ordini della ragione. Kant ritiene che il problema morale si giochi tutto in questa tensione bipolare, e che il vero problema etico sia per l’uomo quello di far prevalere la razionalità come guida dell’azione. Quando l’uomo agisce, è spinto da pulsioni che ne determinano l’azione e le scelte. Kant ritiene di poter affrontare il problema etico seguendo lo stesso metodo usato nella Critica della ragion pura; come esistono cioè strutture trascendentali quali le categorie, che ci permettono l’enunciazione di giudizi conoscitivi sintetici a priori del tutto validi sul piano gnoseologico, così deve esistere la possibilità, ricercata appunto nella Critica della ragion pratica, di giudizi pratici sintetici a priori che ci permettano di realizzare una vita morale fondata non su elementi eteronomici o soggettivi, ma su un elemento universale e necessario. Questa sollecitazione autonoma, che riceve cioè la legge solo da se stessa, è quello che Kant chiama l’imperativo categorico, che dal profondo dell’interiorità dice semplicemente «tu devi», secondo una libera scelta, che è appunto scelta morale e quindi libertà, imperativo che rappresenta un’azione come oggettivamente necessaria per se stessa, senza alcun riferimento ad un altro fine. Un tale imperativo ha carattere formale, nel senso che non enuncia o prescrive questa piuttosto che quell’azione, ma ammonisce ad agire in modo tale che la nostra azione possa sempre valere da norma universale per ogni uomo, in ogni possibile circostanza. Kant da tre formulazioni dell’imperativo categorico; 1) Agisci come se la massima della tua azione dovesse, per tuo volere, divenire una legge universale. 2) Agisci in modo da tarttare l’umanità, tanto nella tua persona, quanto nella persona di ogni altro uomo, sempre come fine e mai come semplice mezzo. 3) Agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale. Cioè, 1) scegli come massima del tuo agire una norma adottabile universalmente, 2) rispetta la persona umana in ogni tipo di rapporto, ad esempio, coltivare un’amicizia per puro vantaggio è immorale, e 3) «sii legge a te stesso», «sii autonomo». In pratica però la nostra vita morale si realizza attraverso azioni tendenti a realizzare dei fini. A questo proposito, Kant pone accanto agli imperativi categorici, gli imperativi ipotetici, che comandano qualcosa appunto nell’«ipotesi» che si voglia realizzare un fine piuttosto che un altro. Questi non sono né morali né immorali, ma può diventare morale o immorale a seconda della volontà di chi compie l’azione. L’imperativo categorico che si esprime nella formula «agisci solo secondo quella massima che la tua volontà possa elevare a legge universale», ha come caratteristiche l’autonomia, in quanto non dipende da nulla, l’universalità in quanto prescrive azioni universalizzabili, e la formalità in quanto non prescrive contenuti particolari, ma è solo la forma generale senza la quale nulla si configurerebbe in una prospettiva etica. La moralità per Kant è volontà buona che il soggetto morale tende a realizzare superando gli impulsi sensibili come gli istinti e le passioni che lo legano al mondo fenomenico caratterizzato da un rigido determinismo meccanicistico; è volontà buona che al limite può giungere, nel soggetto morale, alla denegazione anche dell’istinto della conservazione. (v. Vegetti, Alessio, Fabietti, Papi, Filosofie e società III, Zanichelli)
[12] A differenza degli imperativi ipotetici, che sottostanno ad una condizione.
[13] Si sa ben poco circa la vita di Omero, ed è anche molto difficile indicare il periodo in cui visse. Già gli antichi credevano, alcuni che fosse vissuto nel XII secolo a.C., altri nell’XI secolo a.C., ed altri ancora nel VII secolo a.C.. la poesia lirica di Omero fu già grandamente amnmirata nel’antichità, subendo una flessione solo nel medioevo dovuta essenzialmente alla scarsa conoscenza della lingua greca. Un rinnovato interesse per la poesia omerica si ebbe nell’epoca moderna, grazie soprattutto al pre-romanticismo inglese ed al romanticismo tedesco, che manifestarono tutto il loro amore per la fantasia epica di Omero, per la naturalezza primitiva, per lo spirito popolare che si riflette nelle sue opere. I caratteri principali sono: la drammaticità dell’azione, l’esaltazione delle virtù eroiche, la tragedia del dolore, della morte. Le grandi individualità, quali Achille, Ulisse, sono la summa di tali caratteristiche, e diventano caratterizzazione di eterni tipi umani, e il destino di interi popoli che fanno quasi da coro. Omero è visto non solo come il poeta epico esemplare e l’iniziatore della letteratura classica, ma anche il primo interprete della spiritualità greca, e quindi il grandissimo scrittore che avviò un processo inarrestabile di approfondimento della conoscenza psicologica, spirituale, sociale e fantastica dell’uomo. (v. Omero, in enc. Garzanti, Letteratura)
[14] Archiloco visse nel VII secolo a.C.. fu un soldato mercenario, e morì in combattimento. Della sua poesia ci restano circa 140 frammenti. Egli stesso nei suoi frammenti si presenta come uomo di guerra, oltre che poeta, irruento ed impetuoso, in aperto contrasto con i valori tradizionali della società aristocratica. Ironizza sulla boria dei comandanti e la vanità della gloria dopo la morte. Accanto al tema della guerra vi è quello dell’amore, sentito soprattutto come sofferenza e malattia, come dolore sofferto virilmente. (v. Archiloco, in enc. Garzanti, Letteratura).
[15] Al mito di Zagreus (= il lacerato a brani) è legata l’origine del culto di Dioniso in Grecia. Zagreus era il nome del secondo Dioniso (o Dioniso Zagreo), figlio di Zeus e Persefone, con il quale i greci identificarono Sabazio. [Il primo Dioniso era identificato come figlio di Zeus e Semele, dopo che la madre fu arsa viva, Zeus se lo tenne due mesi cucito in una coscia. Sabazio era una divinità di origine frigia, passata poi in Tracia. Era un dio che presiedeva alla vegetazione selvaggia e viveva nelle foreste sempre inseguito da nemici che a volte lo raggiungevano e lo dilaniavano. Il dio rinasceva ogni volta per tornar poi a morire di nuovo.] Dioniso Zagreo è un’antica divinità della tradizione cretese. Quando Demetra diede alla luce Persefone, Zeus generò Dioniso Zagreo in Persefone per farlo diventare suo erede. Ma Era ed i Titani non erano dello stesso parere. Quest’ultimi, infatti, si opponevano al potere di Zeus e rapirono il bambino ai genitori e poi lo fecero a brani e lo divorarono lasciandone solo il cuore, che Atena raccolse e portò a Zeus. Questi rigenerò suo figlio nel corpo di Semele (v. sopra), e punì i Titani colpendoli con la sua folgore, che li ridusse in cenere. [Da queste ceneri nacque il genere umano.] Quando il figlio di Semele creato dal cuore di Zagreo nacque, Zeus lo chiamò Dioniso. (v.  Zagreo in Grant e Hazel, Dizionario della mitologia classica e Dioniso, Sabazio e Zagreus in Acrosso e D’Alesio, Mondo mitologico.)

[16] Un po’ di date sulla vita e la morte dei personaggi di interesse relativo a questo studio: Eschilo, 525-455 a.C.; Euripide, 485-406 a.C.; Socrate, 470-399 a.C.; Platone, 427-347 a.C.; Aristotele, 384-322 a.C..
[17] Acuto fu l’interesse di Euripide per l’individualità dei suoi protagonisti, non gli interessa la loro fusione in una sintesi compatta, tanto che il gusto per il dibattito lo porta a creare perfette agoni dove i personaggi discutono le loro ragioni. Da questo disinteresse per l’ambito generale della vicenda, deriva anche l’uso del prologo e del «deus ex machina»: un personaggio ed il dio risolutore dell’intrigo chiariscono gli antefatti, spiegano connessioni e riferimenti. Tutto viene trattato in una dimensione di umanità, talvolta di quotidianità antieroica, che dissolve dall’interno gli antichi miti e ha fatto avvicinare Euripide al mondo della commedia borghese. L’attensione all’individuo fa passare in secondo piano il coro, innovazione che fa comporta anche modifiche nella metrica e quindi nella musica. (v. Euripide, in enc. Garzanti, Letteratura)
[18] È la polemica socratico-platonica contro i sofismi, ed in genere contro l’affermarsi della filosofia contro le più antiche forme di sapere mitico-religiose, e che si ripercuote sulla concezione del bello, tendendo ad escludere l’aspetto che il pensiero arcaico aveva accentuato, cioè la forza persuasiva, la capacità di “ingannare”. Per quanto riguarda l’arte, mancandole una esplicita connessione col bello, ed indebolendosi quel nesso che legava il bello alla poesia attraverso la capacità persuasiva di questa,la teoria si sviluppa come la ricerca di una normativa che definisca le varie attività. Questa normativa, non avendo come valore di base il bello, deve giustificarsi con altri fini, per lo più morali: in questo quadro si inserisce la condannna platonica, presente nel libro X della Repubblica, alla poesia drammatica, che Platone vuole escludere dalla città perché si fonda sulla capacità di imitare degli attori, o di immedesimarsi in passioni e vicende altrui, degli spettatori, turbando l’equilibrio delle passioni e la piena adesione al proprio ruolo sociale. Si collega alla dottrina dell’ispirazione del poeta sviluppata dallo stesso Platone nello Ione dove afferma che il poeta non è che un tecnico, e cioè non agisce in base a principi e regole razionalmente posseduti, dimostrabili e posseduti. In un altro passo della Repubblica, afferma che le arti imitano la natura come copie di copie, in quanto le cose raffigurate sono già una copia delle idee, per cui la raffigurazione artistica della realtà visibile, non farebbe altro che allontanare l’anima dalla visione delle idee. Dato che l’arte drammatica riassumeva tutta l’esperienza estetica, ecco la feroce condanna di questa. Anche la trattazione di Aristotele prende come punto base la poesia drammatica. Nell’ambito di una concezione delle arti come attività che imitano la natura, Aristotele concepisce l’arte tragica, contrariamente a Platone, un momento positivo dell’educazione dell’uomo alla conoscenza ed alla virtuù, perche nella tragedia, si rappresenta la realtà umana «come potrebbe essere» (Poetica), secondo strutture ideali che nelle vicende reali, che sono oggetto della storia, si confondono e si perdono. A questa capacità della poesia tragica di rappresentare le strutture essenziali del mondo umano è anche legato il potere che essa ha di produrre la catarsi, o purificazione dalle passioni. (v. arte, in enc. Garzanti, Filosofia,)
[19] Da mimesis = imitazione, riproduzione. In Platone l’imitazione umana è divisa, a seconda del tipo di immagini prodotte, in mimesi «icastica», le cui immagini sono copie fedeli del modello in quanto ne riproducono le esatte proporzioni, e in mimesi «fantastica», o arte dei «simulacri» (phantasmata), cioè imitazione attraverso copie illusorie del modello. Quest’ultima è l’arte del sofista. Mimesi icastica è invece la produzione divina del cosmo. Nel Timeo afferma che le cose sensibili sono imitazioni fedeli dei modelli eterni. Secondo Aristotele, anche per i pitagorici, le cose sono «a imitazione» dei numeri, mentre per Platone «partecipano» delle idee. Per quanto riguarda la mimesi letteraria, Platone considera «mimetiche» in senso deteriore la commedia e la tragedia, ma anche il genere epico per l’uso dello stile diretto nei discorsi. Alla forma mimetica, o mista contrappone la forma narrativa semplice (l’antico ditirambo [forma della lirica corale greca legata inizialmente al culto di Dioniso]). Aristotele, nella Poetica riduce invece ogni poesia ad imitazione, distinguendo la mimesi drammatica o imitazione diretta della commedia e tragedia, dalla mimesi narrativa dell’epica. (v. mimesi, in enc. Garzanti, Filosofia)
[20] Termineche in greco, katharsis designava la purificazione. In senso filosofico, Platone definisce la morte una purificazione (separazione) dell’anima dal corpo e la vita filosofica esercizio e cura di tale purificazione, che sola può restituire all’anima la trasparenzadelle specie ideali. Catarsi è anche la purificazione dell’anima come liberazione di mali interiori, quali la cattiveria, l’ignoranza. La catarsi più intima e fondamentale del pensiero, è quella che confuta il sapere presunto e la falsa opinione di sé, è l’arte della «nobile sofistica» di Socrate. In Aristotele insieme all’uso medico, introduce nella Poetica il concetto della catarsi tragica, e nella Politica quello di catarsi musicale. La catarsi dell atargedia è la purificazione dell’anima dello spettatore dalle passioni dolorose della pietà (compassione) e della paura attraverso pietà e la paura ispirate dalla stessa azione tragica. La targedia è un’imitazione drammatica di fatti gravi e luttuosi; così la pietà e la paura che tale imitazione suscita non sono la pietà e la paura che si provano di fronte a fatti reali; ma l’imitazione tragica trasforma la pena reale in piacere, purificando il simile col simile. (v. catarsi, in enc. Garzanti, Filosofia, ma più approfondito, per Aristotele, v. Aristotele, idem)
[21] Citazione tratta da Plutarco
[22] Dio protettore della campagna, dei cacciatori e dei pastori. Nacque per metà uomo e per metà caprone. La madre , una ninfa, non volle tenerlo con se, e lo raccolse con se Ermes, suo padre, che lo portò con se sull’Olimpo. Divenuto adulto visse nei boschi e sui monti dell’Arcadia. Molto lussurioso, tormentava le ninfe, fra cui anche Siringa. Questa giunta al fiume, si accorse disperata di non poterlo attraversare, e chiese agli dei di tarsformarla in un giunco. Pan colse il giunco, lo taglio in canne di varia lunghezza e le legò insieme, costruendo quello che diverrà il suo strumento, la siringa, o flauto di Pan. (v. Pan in Grant e Hazel, Dizionario della mitologia classica; Pane in Acrosso e D’Alesio, Mondo mitologico.)
[23] L’estasi è l’«uscire fuori di sé» (in greco ekstasis), che per molte tradizioni e filosofie indica lo stato di comunione o identificazione col divino raggiunto dall’individuo. (v. estasi, in enc. Garzanti, Filosofia)
[24] È  il periodo della sua vita che egli chiama come il suo «servizio del dio», che lo farà vivere in estrema povertà e lo porrà in conflitto con molti suoi concittadini. L’oracolo, aveva risposto che nessuno era più sapiente di Socrate. Questi saputo il responso e non ritenendosi affatto sapiente, lo considerò un’enigma e si diede a ricercarne il senso interrogando quelli che considerava più sapienti di lui, i politici, i poeti, gli artigiani della sua città. Dopo una lunga ricerca, riconosciuti i limiti dei pensieri acquisiti, potè dare una soluzione all’enigma: ciò che il dio voleva dire in  realtà era che nessun uomo è sapiente, e a tale scopo si era servito di Socrate come di un esempio, volendo significare che l’uomo più sapiente è colui che, come Socrate riconosce che il proprio sapere non vale nulla rispetto alla vera sapienza. È il motivo della «dotta ignoranza». Sciolto così l’enigma dell’oracolo, si dedicò interamente al compito che il dio gli aveva assegnato: educare gli altri, in particolare i giovani, alla conoscenza di se, del proprio non sapere, della propria condizione umana, e alla cura della propria anima. (v. Socrate, in enc. Garzanti, Filosofia)
[25] Oltre che per dei precedenti politici, fu accusato per il suo spregiudicato insegnamento impartito ai giovani ateniesi, per la sua non credenza negli dei, e per l’aperta opposizione quindi alle credenze e alle tradizioni della polis. Fu denunciato per empietà e corruzione dei giovani. È probabile che i suoi accusatori volessero solo che andasse in esilio, ma Socrate non accetto compromessi, subì il processo, e decise di bere la cicuta. (v. Socrate, in enc. Garzanti, Filosofia)
[26] Deriva da theorein = guardare, da cui deriva theorema = oggetto di contemplazione, da theoi = degli dei.
[27] Lettera a Rohde del 22-2-1884
[28] In greco peripatein = passeggiare
[29] Già nel V secolo a.C., alcuni filosofi greci sottolinearono che si può conoscere solo ciò di cui si è fatta personale esperienza. A questa tradizione si appella anche Protagora, nel IV secolo a.C., quando osserva che l’uomo, collocato in una posizione intermedia fra l’animale e la divinità, è sempre incerto tra l’evidenza e la mera apparenza, tra il manifesto (aletheia), e il non manifesto (lethe). Ma per lui, tale colocazione, e la brevità della vita, che comporta un’insormontabile limitazione delle esperienze, rendono vana ogni ricerca. Tali considerazioni rinviano alla tradizione omerica, la quale definisce il sapere nei termini dell’«aver visto», della diretta esperienza.
[30] Lo aveva già però in parte fatto Feuerbach, ed inoltre lo aveva già fatto Soren Kierkegaard, pur se con prospettive diverse,  ma quets’ultimo era un perfetto sconosciuto all’epoca. Ciò per via della lingua. Essendo danese, la differenza di lingua rispetto ai maggiori centri di cultura dell’epoca, fece si che la sua opera rimanesse praticamente sconosciuta fino agli inizi del novecento.

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