LASCIAMO LE ALI AI BAMBINI


di ioannes hetairos paidofagos

"…potete prenderci tutto, ma lasciateci le ali…". È un verso di una canzone di Francesco Guccini, quello che ha ispirato Rosaria Troisi e Lilly Ippoliti per la scelta del titolo del libro Lasciateci le ali. La presentazione del libro, il 26 ottobre, è stata organizzata, a cura dell'associazione stessa nella sede de "Il Focolare". All'incontro erano presenti le due autrici.
La storia raccontata nel libro, è semplice e complessa allo stesso tempo, delicata e forte contemporanemente. È semplice come solo le storie dei bambini possono essere, e qui c'è la storia, ci sono le storie vere di due bambini, Riza, kosovaro, e Maria, napoletana, che casualmente si incontrano, ma non a caso diventano amici. È complessa per la difficoltà della tematica affrontata. Sono riassunti in essa la tragedia di una guerra, la paura di una fuga, lo spaesamento in un paese che non è quello delle proprie radici. È delicata come il cuore di questi bambini che si incontrano, si capiscono e si donano amicizia. È forte perché con la loro sola amicizia, riescono a far cadere tutte le diffidenze che in loro non erano nate, ma nei "grandi" si. È una storia che parla di bambini, parla con il linguaggio dei bambini, ma la dovrebbero ascoltare i "grandi".
I sentimenti che attraversano il cuore dei bimbi, sono puri e non hanno bisogno di essere stimolati. Lo devono essere quelli dei genitori, dei maestri, che non sempre li caricano di atteggiamenti positivi. I piccoli, a cui viene sempre spontaneo agire nell'unico modo che conoscono. Da bambini. Con il cuore puro. Anche di fronte ad un argomento difficilissimo da comprendere come può essere quello della guerra e della fuga.
È difficilissimo spiegare a dei bambini cos'è una guerra. La potrebbero immaginare come "quella cosa" che si vede, spesso, in televisione, o come "quell'altra cosa" che si può fare con un videogioco. E la fuga. Come spiegare che ci possono essere degli uomini, delle persone, dei bambini, costretti a dover abbandonare le loro case, le loro terra. Tutto. Tutti i loro (pochi) giochi, ma anche le loro certezze, le loro speranze. Le certezze date da una famiglia che i più sfortunati non avranno più la possibilità di rincontrare, la certezza di avere poco, ma di avercelo, e la speranza nel futuro che solo gli innocenti occhi di un bambino possono avere. Tutto questo viene spazzato via da pochi colpi d'artiglieria. Che fare allora. Ecco una nuova speranza, quella dell'immigrato che fugge, di trovare in un altro paese, non le certezze già belle e pronte, ma quanto meno la possibilità di ricostruirsi una vita e di tornare ad avere qualcosa a cui aggrapparsi. Quanto meno di far ritornare i bambini ai giochi. Donargli la possibilità di ritornare a sperare.
In fuga da condizioni di vita estremamente difficili, ci si imbarca per un viaggio dagli esiti tutt'altro che scontati. Quali difficoltà si incontrano nel paese d'arrivo, quale diffidenza nei loro confronti, quante porte chiuse. Si opera un distinguo, in quest'Europa che si mostra ben accogliente nei confronti di "cervelli extracomunitari", che portano il loro bagaglio di conoscenze acquisite nei loro paesi a spese di altri governi e riescono a trovare delle borse di studio che permettono di inserirsi nella realtà europea e nel mondo del lavoro, mentre invece i rifugiati, i profughi, vengono visti come un inutile fardello che in parte, si rispedisce a casa, ma senza nemmeno troppa convinzione, visto che queste stesse persone, che per lo stato sono fuori legge, vanno ad occupare quei posti di lavoro dati a condizioni inaccettabili per qualunque "civile" europeo. Lavori che però qualcuno dovrà pur fare, e quindi se ne mantengono sempre in numero sufficiente a coprire il "fabbisogno". Ma questi, purtroppo, ingrossano anche le fila della malavita. Ma questa però pare a molti di noi, una cosa già connaturata nel loro dna. Quando si parla della chiusura dello stabilimento di una casa automobilistica, siamo tutti convinti che un fatto del genere potrebbe costringere molti a darsi alla criminalità. Se però parliamo di rifugiati che fuggono da una guerra o da una persecuzione, questi sono "già" ladri e non farebbero altro che proseguire qui in grande stile quello che già facevano nel loro paese. Nessuno dubita che ci possano essere elementi del genere, ma non si può, non si deve generalizzare.
Purtroppo l'Italia non è immune da una diffusa, latente "paura" dello "straniero". In un paese come questo, da sempre attraversato, addirittura crocevia di culture diverse, le più disparate e le più lontane fra di loro! Inoltre siamo stati anche noi popolo "migrante". Ma forse ce ne si dimentica troppo spesso. Ci si dimentica che negli Stati uniti siamo stati i macaroni, i wop (americanizzazione di ‘guappo’), in sud America eravamo i gringos, in Francia i surineurs (coloro che accoltellano alle spalle), tutti nomi che non venivano certo usati come complimenti! Eppure in proporzione chi ingrossava le fila del crimine erano pochissimi. Si lavorava duramente ed in condizioni schiavistiche eppure, purtroppo, si veniva spesso associati alla criminalità!
La situazione, per non andare troppo lontano, sembra quella che trovavano i meridionali al nord. Quello che si rinfaccia a questi "stranieri", è la stessa cosa che veniva rinfacciata a noi. In uno studio del 1962 del Centro ricerche industriali e sociali di Torino (in Dis-crimini, di Marcella Filippa, SEI, 1998), si può notare come uno degli stereotipi più diffuso fosse che i meridionali andavano lì senza saper fare niente, e che pretendessero di essere mantenuti dai settentrionali. Oppure venivano considerati dei ladri, dei violenti!
Forse, invece, bisognerebbe cercare di abbandonare tutti gli stereotipi, e porsi davanti allo "straniero" con gli occhi "aperti" e il cuore sgombro dei bambini, e da loro cercare di imparare qualcosa.
Per concludere tornando al tema iniziale, non bisogna, forse, raggiungere il limite estremo di Ezio Vendrame, un calciatore classe 1947, il quale vorrebbe i bambini «tutti orfani, perché i ragazzini capiscono tutto. Sono gli adulti che non comprendono», ma se tutti cominciassimo ad ascoltarli un po’ di più invece di fargli discorsi per lo più incomprensibili, forse, anzi, sicuramente si starebbe tutti un po’ meglio.
Lasciamo le ali ai bambini. Lasciamoli volare. La strada ce la indicheranno loro.

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